Isole che più… “isolate” non si può, dalla natura ancora intatta, a metà via fra i riti dell’occidente e le “tradizioni” primordiali. Per capirci: astucci penici, melange linguistica e pipistrelli in salmì.
I riusciti tentativi della Chiesa, tra il Quattrocento e il Seicento, di impedire un processo di unificazione nella penisola italiana, hanno reso un grande servizio agli Stati europei già autonomi e indipendenti. I vantaggi si resero evidenti soprattutto nell’ambito delle scoperte geografiche (cui parteciparono navigatori liguri e toscani, ma al servizio di navi straniere) che costituirono la matrice dei ricchi imperi coloniali.
Italiani, popolo di eroi, santi e navigatori…
Per quanto attiene il turismo da tintarella e mari caldi, si potrebbe persino commentare che l’assenza di territori d’oltremare (non fanno testo le quasi recenti avventure coloniali cantate in “Tripoli bel suol d’amore” e “Faccetta nera”) ha pure impedito agli abitanti del Belpaese di godere vacanze esotiche a casa loro, con ovvi vantaggi economici e logistici.
Ciò accadde invece agli inglesi (ai Caraibi come in Australia, alle Figi e alle Maldive), ai francesi (dalle Antille al Madagascar, alla Polinesia) e agli spagnoli.
Più di un secolo dopo la scoperta di Colombo, non ancora sazia dei tanti possedimenti europei e delle immense colonie sudamericane, la Corona di Madrid proseguì l’esplorazione dell’oceano Pacifico, iniziata nel 1521 con la circumnavigazione della Terra: progettata e iniziata da Magellano, proseguita e portata a termine – dopo l’uccisione di Magellano nelle Filippine – dal basco Elcano con tanto di “reportage” del vicentino Pigafetta.
Nella primavera del 1606 un altro navigatore portoghese sponsorizzato da Madrid, Pedro Fernandez de Quiros, approdò e fondò una colonia su un’isola prontamente battezzata “Terra Australis del Espiritu Santo”, con la tenera certezza di aver messo piede sull’agognato e ignoto continente meridionale, oggidì Australia.
Isole agli antipodi
Errore, perché si trattava dell’isola più settentrionale di un arcipelago del sud Pacifico, stranamente a forma di “Y”, tra le Figi e la Nuova Caledonia.
Fallito il tentativo di dare vita a una Nuova Gerusalemme a causa dell’eccessivo appetito degli indigeni (evidentemente entusiasmati dalla tenerezza di quegli strani visitatori pallidi) l’isola ricadde nel dimenticatoio ma quantomeno conservò il nome, Espiritu Santo (per i viaggiatori incalliti basta “Santo” e ne avanza).
Nel 1774 James Cook – prima di finire anch’egli in pentola alle Hawaii – completò l’esplorazione delle isole abbandonate meno due secoli prima dal collega portoghese e le chiamò Nuove Ebridi. Ma anche questo nome era destinato a cambiare. Nel 1980, conquistata l’indipendenza dopo settantaquattro anni di un “Condominium” anglo-francese (tanto disorganizzato da essere ribattezzato “Pandemonium”) i centosessantamila abitanti optarono per la più casereccia denominazione Vanuatu (Terra Eterna) che poneva termine all’omonimìa con le fredde e ventose isole della Scozia occidentale.
Fatta eccezione per pochi cultori della geografia e altrettanti incalliti viaggiatori, nel nostro Paese le Vanuatu restano un nome misterioso. Può conoscerne l’esistenza qualche ricercatore di paradisi fiscali – non pago degli investimenti nelle solite Antigua e Cayman – ben conscio che nella capitale Port Vila, quindicimila abitanti, non occorre più di tanto per costituire una “Finanziaria” o investire capitali al riparo da occhi indiscreti.
E pure per gli “aficionados” di intriganti vicende giudiziarie, accadute una ventina di anni fa, le Vanuatu potrebbero non costituire una novità: quel lontano arcipelago adagiato sull’immenso oceano Pacifico fu infatti teatro di un “giallo casereccio” culminato in un ergastolo (cui seguì la grazia e contestuale espulsione) comminato a una signora umbra per l’uxoricidio del marito, chiacchierato imprenditore edile toscano operante nell’oceano Pacifico.
Terra bellissima, quella dei “Ni Vanuatu”
Foschi processi “vudù” e dollari a parte, alle Vanuatu andrebbe invece dedicata maggior attenzione sotto il profilo culturale e del viaggio-scoperta, compito non facilitato dalla scarsa informazione turistica fornita nei Paesi di recente indipendenza.
Una carenza che a conti fatti non nuoce, vista la fine fatta da destinazioni prima troppo pubblicizzate e poi invase dai charter “tutto compreso”. Un eccessivo sviluppo turistico distruggerebbe infatti “l’Unspoiled Paradise”, il paradiso incontaminato che secondo il locale Ufficio del Turismo non costituisce soltanto uno slogan pubblicitario adottato per vendere la destinazione, ma esiste veramente. E i “Ni Vanuatu” (così si chiamano gli abitanti dell’ex colonia anglo-francese) non hanno torto: le loro isole sono davvero belle.
Per averne certezza basta compiere il periplo di Efate (l’isola principale, capitale Port Vila), volare a Tanna, che non offre solo l’escursione emozionante al vulcano Yasur e una visita a un Custom Village, ma propone pure una nuotata insieme al “dugong”, la vacca marina simile alla foca, prendere un aereo per Santo (e visitare le piantagioni di pepe e vaniglia di un intraprendente milanese), trascorrere una notte in uno spartano resort (nei bungalow lampada a petrolio) della selvaggia Malekula, ricca di tradizioni e folclore nei villaggi delle tribù dei “Big” e “Small Nambas”, misurati secondo le dimensioni dell’astuccio penico.
Cento lingue, per capirsi al volo
Dalle sommarie descrizioni è facile comprendere che – salvo alcuni ottimi alberghi a Efate – i pernottamenti sulle altre isole delle Vanuatu non vanno oltre un decoroso comfort, niente a che vedere con i sciccosi resorts delle non lontane (si fa per dire, siamo nel Pacifico) Figi e della Grande Barriera Corallina australiana.
Ma oltre alle spiagge, al fascino dei Mari del Sud, al già lodato “Paradiso Incontaminato”, ciò che affascina delle Vanuatu e dei “melanesiani” (dall’antico greco “melòs”, nero, per la carnagione assai più scura rispetto ai polinesiani) è la componente etnologica.
Basterà ricordare la varietà di lingue e dialetti parlati (centoquindici!) cui ha posto rimedio il “bilama” (da “Beche-de-Mer”, cetriolo di mare, molto ricercato nel secolo scorso perché ritenuto afrodisiaco) un curioso cocktail di inglese, francese e le tante lingue assortite.
Ritornato da un’esperienza che lo ha riportato indietro nel tempo, il viaggiatore scoprirà che molti raffinati ristoranti di Efate servono piatti della miglior tradizione gastronomica francese e della “nouvelle cuisine” nonché – per i palati più arditi e raffinati – il prelibato pipistrello in salmì.
Le Vanuatu, vedere per credere.
Con la preghiera di lasciarle “unspoiled”
Alle Vanuatu nel 2001….
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