Concludo il racconto sulla mia ultima gita in Uruguay segnalando un business nazionale davvero interessante: la creazione ed esportazione di giocatori di Calcio.
E non si dica che l’argomento non incuriosisce. Basti pensare che nelle recenti vicende economiche del pianeta sono innumerevoli i prodotti della terra e quelli industriali, raccolti oppure manufatti eppoi commercializzati all’estero: ma che un Paese creasse ed esportasse esseri umani pedatori, beh, la vicenda è singolare non meno che astrusa. Invece accade, appunto nella Republica Oriental del Uruguay.
E per dimostrarlo non occorrono geometrici grafici o complicati studi della Bocconi. Bastano pochi numeri, dati che m’è capitato di leggere su pannelli esposti in un moderno padiglione dedicato alle info turistiche a Colonia del Sacramento (la storica, già descritta cittadina uruguagia sul Rio de la Plata – Patrimonio dell’Umanità – a lungo contesa tra gli imperi spagnolo e portoghese).
Calciatori. Emigranti speciali
Nel primo decennio di questo secolo, 1414 giovani uruguagi sono emigrati per giocare a Calcio: 238 in Argentina, 113 in Messico, 102 in Spagna. Un’esportazione massiccia e oltretutto in forte crescita, i cui numeri spiegano tutto, se si pensa che l’Uruguay conta solo 3 milioni e mezzo di abitanti, appetto a 240 milioni di vicini di casa (40 milioni gli argentini, 200 i brasileros) altrettanto football dipendenti. Solo nel 2010 emigrarono dal Paese 111 giocatori e 14 tecnici (e nonostante la penalizzazione derivante da cotanta diaspora, l’Uruguay vinse la Copa America 2011). Il sullodato pannello non precisava però quanti sono i calciatori uruguagi approdati nel Belpaese e mi azzardo a conteggiarne una settantina. Posso invece, grazie a una mia fuerte aficiòn al fùtbol, ctare quelli più noti affermatisi nel Belpaese dai lontani anni ’30 ai nostri giorni: i matusa ricorderanno Puricelli, Schiaffino, Ghiggia, gli sbarbati Cavani, Gargano, Forlan, Muslera. Per non parlare di quel baloss dell’Alvaro Recoba, el Chino – da sberle quel suo sfottente sorriso – che con un solo (massimo due o tre) gol all’anno, vabbè assai belli, faceva godere Moratti, padrùn dell’Inter, a tal punto da essere tornato in Uruguay con tanta grana da far stare bene i suoi cari per qualche generazione (ed è vero! ne ho avuto conferma mediante indagini esperite a Montevideo). Ma prima di informare su storia e gloria del Calcio uruguagio completo l’info sull’export pallonaro aggiungendo che – giusto le regole dell’economia moderna – in Uruguay esiste anche un import di giocatori, però scarno quanto a numeri e a know how (trattasi di poche pippe – provenienti da Paesi calcisticamente arretrati – sostituenti portieri, centrocampisti o punteros del posto andati nel mondo a tirar su soldi).
Paese piccolo, ma organizzato
Da quanto esposto si evince che il fùtbol uruguagio è speciale, diverso, merita altre due righe. D’altro canto un po’ speciale e diverso è anche l’Uruguay. Dove lo trovate un altro Paese che nel passato oltre a ricchezze (business e allevamento) e folklore (il tango non è solo argentino, a Montevideo fu composta la Cumparsita e il lunfardo, slang collegato al tango, è di casa come a Buenos Aires) ha prodotto leggi d’avanguardia (divorzio, diritto commerciale, educazione) e oggidì anticipa i tempi (porro di marijuana libero, stop alle partite causa violenza, polizia via dagli stadi, si arrangino, e chissà che qualche nostrano addetto ai lavori del balòn non capisca) e come ciliegina esibisce un presidente (Josè Mujica) ex terrorista tupamaro che gira su un relitto d’auto e ospita i senzatetto nel palazzo presidenziale?
Vittoria (1950) nel mitico Maracanà
Ma tornando al balompiè uruguagio qualcosa di misterioso e diverso lo possiede (sennò mica esporterebbe tutto il già descritto esercito di giocatori). Che sia la tanto evocata (proprio a proposito delle gesta della Nazionale) Garra (artiglio, grinta) Charrua (i fieri indios precolombiani abitanti sulla costa del Rio de la Plata)? Va a sapere. Resta il fatto che il piccolo Uruguay vanta la vittoria in due tra i più importanti Campionati mondiali di Calcio. Quello del 1930, perché fu il primo, e soprattutto il Mundial del 1950 e qui siamo nel mito. Creato appunto dalla vittoria, 2 a 1, nel carioca Maracanà, o maravilhoso futebòl brasileiro, schiantato dal gol di Ghiggia, harakiri (sembra sia vero) non solo nelle favelas.
Peñarol e Nacional, derby continuo
Diverso, si diceva, il Calcio uruguagio, nel senso di strano e speciale: dove lo trovate un campionato di un Paese giocato dalla quasi assoluta totalità delle squadre della capitale? Quest’anno 15 delle 16 squadre sono di Montevideo (e ce credo, la città ospita quasi la metà degli abitanti dell’Uruguay, il resto sono cittadine e paesotti).
E tra le tante squadre della ‘capitale più a sud del sud America’ svettano due Clubs: il Nacional e il Peñarol, sole sacerdotesse del Calcio uruguagio (il derby, ne hanno combattuti più di 500!, è evento nazionale). La prima è la squadra dei señoritos, i montevideanos-bene. Il Peñarol è invece più ruspante e tanto popular da possedere uno stadio (il Josè Pedro Damiani, il cognome non stupisca, quasi il 40% degli uruguagi ha origini italiane) poco ricco di posti, solo 12 mila, tant’è che la squadra gioca nel ben più capiente Centenario (Mondiali del 1930 a ricordo dell’indipendenza conquistata un secolo prima). Chicca finale: il nome Peñarol deriva da Pinerolo.
Nella seconda metà del ‘700, Giovanni Battista Crosa, finito in Uruguay (come se in quella remota colonia ispanica non potessero trovare un maestro di una corale) diede il nome della cittadina natale al barrio in cui andò a vivere. Scherzi del viaggiare: ti ritrovi in capo al mondo, disquisisci di fùtbol, poi, d’amblè, pensi al caro Vej Piemont!
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