in copertina: Bocce in Nuova Zelanda

Il turismo sportivo prende le mosse negli anni ’70 del Novecento, è storia di avventure e disavventure legate ai viaggi organizzati per i grandi eventi: Calcio, Tennis, Formula Uno, Motociclismo, Basket… Ebbene sì, lo confesso: i “Viaggi & Sport“, le trasferte in occasione delle grandi manifestazioni sportive, non solo footbalistiche, e/o di avvenimenti coinvolgenti squadre e campioni italiani, li ho inventati io. Gite più o meno lunghe – una, tennistica, arrivò alle lontane Isole Figi – per assistere e godere ciò che gli americani chiamano “spectator sport”, lo “sport visto”, però “on the spot”, sul posto, da cui una bella differenza tra lo sportman che oltre a un match o un Grand Prix vede anche il mondo e lo “sportivo da sofà”, chiuso in casa a ingozzarsi di drinks e patatine davanti al video.

If You wanna race Daytona is Your place....

If You wanna race Daytona is Your place….

Sedentari per sport

Se invece si parla di “praticare uno sport” durante un viaggio, lasciamo perdere. Si dà infatti il caso che alla faccia di tante proposte dei dèpliants, di italiani che vadano in giro per il mondo a mettersi in mutande e maglietta per correre dietro a un pallone o zompare giù da una rapida, ce ne sono invero pochini, salvo qualche giocatore di golf. Almeno rispetto ai turisti nordeuropei, che durante una vacanza amano anche smaniare e muoversi.

Perché gli italiani, se sportivi (attivi), il tennis o il ciclismo o il calcetto, preferiscono praticarselo a casa loro, con gli amici, nelle pause o finito il lavoro quotidiano. In viaggio, invece, niente sport, salvo le rare eccezioni di chi nei Villaggi Turistici si stufa e qualcosa deve pur fare. Le ferie sono sacre: spiaggia e famiglia, o discoteca e sesso. Una prova? Fosse anche Ferragosto, puoi trascorrere ore in un aeroporto italiano, ma morire che vedi un vacanziere con in mano una racchetta da tennis o altro arnese denotante che il partente va a svolgere una attività sportiva.

Calcio e molto di più

Viaggi, dunque, la mia invenzione, “per andare a vedere uno sport”. Che furono molti, oltre, beninteso, al solito Calcio: Tennis, Formula Uno, Motociclismo, Ippica, Ciclismo e ça va sans dire, le Olimpiadi. Tante belle trasferte che mi permisero di arricchire la mia conoscenza del mondo e pure di vivere appaganti esperienze giornalistiche. Da Fuji, Giappone, raccontai per un quotidiano sportivo – che casino “a quei tempi” dettare il pezzo ai dimafonisti – comeJames Hunt fregò il Mondiale di F1 al ferrarista Nicky Lauda, che se la fece sotto guidando sotto un diluvio. Da Maceiò, Brasile, altro casino, in una precaria sala stampa ricavata sotto una tenda, fianco a un inzuppato stadio del tennis, per commentare una sonora quanto ingloriosa “paga” presa in una semifinale di Coppa Davis.

I soldi e il campione

Non sarò immodesto e quindi ritengo che possa anche spettarmi qualche merito per aver inventato i Viaggi Sportivi (cosa non s’ha da fare per poter girare il mondo). Ma fui baciato anche da una sostanziosa dose di fortuna. Perché per creare trasferte di questo tipo, occorrono due decisive componenti: i soldi di chi “va in giro per sport” e — salvo il Calcio – il “campione”, la squadra vincente di uno dei cosiddetti sport minori – e in Italia lo sono tutti indistintamente, perché se manca il “crack”, il personaggio, non c’è sport che non finisca nell’oblio.

Maledetti tickets…

Fosse solo per l’aurea massima “Ubi Maior…” e per la già dichiarata divina importanza del Calcio, la narrazione dei Viaggi Sportivi prende corpo dallo sport “balompedico” (così lo chiamava il grande Mago Helenio Herrera). E sia subito precisato che, per organizzare trasferte in occasione di una partita di pallone, più che una buona capacità professionale o un sagace marketing, era necessario un eccellente fiuto e/o abilità nel reperire i biglietti (detti anche “preziosi tagliandi” prima che gli stadi finissero squallidamente vuoti).

La scorta del negrone

Non parliamo poi se l’avvenimento era costituito da un torneo con più partite, tipo un campionato mondiale. Roba da andare fino in America a cercare e cuccare i tickets. Una volta negli States, a Los Angeles, mi feci scortare fino all’aeroporto da un “bestiùn” di negrone della polizia privata, onde non venir rapinato di decine di migliaia di dollari di biglietti nascosti nelle mutande. Il secondo blitz americano mi spinse invece a 3600 metri sul livello del mare, roba da Indiana Jones, in Bolivia, a prelevare biglietti comprati mediante congrua mazzetta slungata a un funzionario delle locale federazione calcistica. Ma sulle federazioni pallonare preferisco glissare; il loro ricordo continua a crearmi incubi.

Non parliamo poi di quanto mi accadde per la finale di Coppa dei CampioniAmburgo-Juventus, 25 maggio 1983, ad Atene (che gioia! tirai su un po’ di lira spennando i drughi bianconeri e in più la ciliegina di vederli perdere grazie a un celestiale goal del caro Magathall’ottavo del primo tempo!).

Da Atene a Rotterdam per il “dio pallone

Per trovare i biglietti di quel mitico match – e alla fine, eureka!, ne sommai ben 2412, un record nella storia delle trasferte sportive – assediai per tre giorni i locali in cui venivano assegnati, col risultato che per lungo tempo mi capitò di svegliarmi nel cuore della notte recitando tre parole che non riuscivo a togliermi dalla testa: Ellenikì Podosferikì Omospondèia (Federazione Calcio Greca). Ma se si parla di record, posso anche vantarmi di essere stato il primo “charterizzatore” di un Jumbo in occasione di un viaggio sportivo. Era il 31 maggio 1972, a Rotterdam, finale di Coppa dei Campioni, e lì, ahimè, non solo l’Inter le beccò dall’Ajax, ma si ruppe pure il 747 che doveva riportarci a Milano, tant’è che i tifosi nerazzurri, nonostante l’identità religiosa che ci legava, tentarono di linciarmi a ombrellate ritenendosi vittime di una truffa (e invece quel bestione di aereo si era rotto davvero, a Istanbul).