Ode a una Tierra Muy Querida. Dotto, ma anche scanzonato, irriverente e insolito reportage gastronomico nella terra del Sangiovese …..
per mondointasca.org 18/3/2007 …. foto di copertina: Mandriole, casa in cui morì Anita Garibaldi
Propormi di andare in Romagna? È come invitare un’oca a bere! Alla pascoliana terra del Sangiovese andrei anche a piedi (e la stanchezza di vivere in una Milano ormai vocata solo ai danèe è l’ultima delle motivazioni), figuriamoci se comodamente seduto su un’auto (con qualcun altro al volante, visto che guidare sull’autostrada – come diceva il Passatore – mi rompe i maroni, e sulle strade statali odio finire cuccato per eccesso di velocità da vigili che ti depredano legalmente – nulla rischiando, a differenza del sullodato Robin Hood rumagnòl – solo per rianimare il c/c del loro Comune). Ma perché tanta aficiòn romagnola? D’accordo, mio padre era di Lugo, quindi nel deep south della Romagna – Emilia (più che all’ordine alfabetico, ritengo più equo assegnare le precedenze all’importanza). Ma, figlio di madre novarese, avrei anche potuto affezionarmi al Piemonte (oltretutto fui portato a nascere a Torino, e lì fortunatamente mi andò di lusso non divenendo juventino) terra seriosa che, beninteso, stimo e apprezzo (Barolo, Barbaresco. Barbera) però non riesco ad amare visceralmente. Le ragioni? Va a sapere o, forse, perché i miei semi paìs piemontesi han dato ricetto per troppo tempo a quei pidocchiosi – non lo dico io, fu il Giuanìn Brera a scriverlo – dei Savoia, mentre, si sa, la Romagna è fieramente non meno che totalmente repubblicana (tant’è che sulla scalinata del municipio di Ravenna una lapide rammenta che il 2 giugno del ’46 per la Ripoblica votarono in più di 40.000 e per la monarchia solo pochi intimi).
Oltretutto, “torno” in Romagna quasi sempre in compagnia dal mè amìs Paolo, che, lui sì (a fronte dello scrivente, semplice meticcio) è lughese doc 100% (e come me, di Milano salva ormai solo il Camparino e quelle rare mescite di vino in cui bevi bene e non ti fottono con la modaiola Happy Hour, in cui paghi una cifra per un solo calice e gli avanzi del ristorante di fianco). E oltre al piacere di scoprire con un amico la terra solatia dei Guidi e Malatesta, durante le zingarate romagnole Paolo mi fa tanto sentire come il generale Custer (lui girava nel West coi gli scouts Sioux addetti alle traduzioni, io mi avvalgo di Paolo a mò di Berlitz con gli indigeni di Forlì e Brisighella, perché provate voi a capirlo, il romagnolo, soprattutto quando viene sibilato con quella Z che pare una scudisciata).
Ma dove vado, quando lascio (ahimè solo provvisoriamente ma contento) Milano e arrivo in Romagna dopo doverosi pit-stop di Lambrusco e Culatello (da cui si evince che anche l’Emilia mi piace assai, anche se quei balossi degli indigeni definiscono spregiativamente i rumagnol “i bagnini”, però, poi vengono a divertirsi a Remmìn e Rizziòne)? Beh, c’è solo l’imbarazzo della scelta, tanto, ovunque tu vada non fai fatica a trovare un bicchiere di Sangiovese (Bacchelli suggerì come, se ti perdi, non faticare per sapere in quale delle “due regioni” ti ritrovi: entri in un casolare, chiedi da Bè e se sei in Emilia ti portano acqua, in Romagna ti porgono il vino). E mi riferisco al Sangiovese, che poi sarebbe uno dei (soli) tre santi in cui credo (gli altri due? San Fermìn, quello che a Pamplona mi protegge durate le fiestas, e San Siro, beninteso quello di rito interista). Problemi, dicevo, di dove andare una volta giunto in quella che il conte Rognoni di Cesena (grande personaggio, non solo dello sport) definì la Libera Repubblica di Romagna, non ne ho. Oltretutto (elementare, Watson, dopo una vita che vi bazzichi) non si contano i numi tutelari che rendono viepiù piacevoli e goduriose le mie apparizioni laddove si esibì il bravo Passatore (Boncellino, un tiro di schioppo da Lugo, e poco distante era nato il suo gregario alias Dumandò solo perché curioso e voglioso di sapere).
Tra i pii che tra collina, coste e pianura del pianeta Romagna tuttora mi rivolgono la parola mi vanto di annoverare (ça va sans dire quasi tutti bazzicanti i Viaggi&Turismo nonché il giornalismo gastronomico): i coniugi Dolcini in quel di Predappio, Vanni e Lina da una vita corifei di quella terra, e che meraviglia quella loro casa collinare (quando ci penso vorrei tornare … e vai col lìssio); Bruna, facente viaggiare a Ravenna; Maria Teresa, da Cattolica mio informatore sul porsùt di Carpegna; a Forlì oltre che dotta prof universitaria la Gloria Bazzocchi è sorella nerazzurra del locale Inter Club; e Davide Paolini (Santa Sofia) è quel grande giornalista (Il Sole 24Ore, gastronauta) che mi ha inserito nella Storia definendomi massimo conoscitore italico del Pata Negra iberico. Già, il magnèr, mangiare. E rieccomi in giro col mio scout Paolo nonché vicino di tomba (appunto in quel di Lugo) io vicino a quella di Longanesi, lui a quella di Baracca (che da lustri tenta di scimmiottare tentando, invano, di sollevarsi su precari deltaplani).
Specialità di Paolo sono i Capaltaz, grossi tortelloni che regolarmente, all’inizio di ogni inverno, assicura di voler elaborare e cucinare (ma, pigrissimo, sono ormai vent’anni che non finanzia la Fernet Branca). Perché questo primo piatto (che poi vale tutto un pasto) della collina romagnola è spaventosamente pesante, di cui alla ricetta: impasto di farine possibilmente variè e acqua, ripieno di castagne bollite e mostarda senapata, dopo bollitura siano conditi con pane grattato, olio e pepe (se non bastasse il Fernet c’è sempre l’Alka Seltzer). Meno letali sono invece di Passatelli (facili, li so fare anch’io, e sovente meglio di Paolo): metà pane grattato, metà forma (nel senso di grana grattugiato) e un uovo a cranio, il tutto passato (escono grossi spaghetti) attraverso un curioso strumento bucherellato (si trova sulle bancarelle al mercato di Lugo il mercoledì, in assenza va bene un passapurè) e fatto cadere in un (buon) brodo (chi conosce cos’è il cappone ha capito tutto). Non senza premettere che le Tajadèl (tagliatelle) della Benilde a Bertinoro restano somme (ancorchè le sciurette milanesi storceranno il naso alla vista dell’umile locale), se si passa ai secondi riecco Paolo esperto di E Castrè (il castrato) che gli stolti schizzinoosi snobbano per la povertà della genìa e invece è saporitissima carne (e più che alla brace, lì finisca la bacchetta, il mio scout ne cucina lo spezzatino in gustoso umido, il tutto non privo di insaporente, romagnolissimo Scalogno). Altri piacevoli (ma, come giusto, un filino ruvidi) sapori? Glissato sulla Piè/piada, piadina (e in Romagna – Emilia esiste un, minimo, centinaio di altri modi per chiamare ‘sto plurimillenario mangiare) non resta che passare al dessert. Leggasi Fichi giulebbati e Squaquerone (stracchino da vacche stracche, quindi meglio in primavera) e in Romagna (con tutto quel ben di dio di frutta ivi raccolta) fanno bene financo la crostata. Qui giunti non resta che ricordare che sul magnifico pianeta romagnolo aleggia la Bibbia mangereccia nazionale (Pellegrino Artusi, di Forlimpopoli/Frampùl, “L’Arte di Mangiar Bene”, e non si perda in giugno un Certamen aperto ai cuochi dilettanti). Ma si corra subito ad acquistare anche il Vangelo gastronomico del (altrettanto) rumagnòl Olindo Guerrini alias Lorenzo Stecchetti (Sant’Alberto, Ravenna) leggasi “L’arte di utilizzare gli Avanzi della Mensa”. L
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2 PROSEGUE IL VIAGGIO NELLA KOINE’ ROMAGNOLO-EMILIANA (2°)
per mondointasca.org del 18/5/2007
Nella puntata precedente ho narrato l’inizio di una canonica gita pontificante il 1° Maggio e avente per meta la mia Koiné nella a me cara Romagna-Emilia. Dopo una bella sosta cultural–gastronomica dedicata alla Reggia di Colorno della mai troppo lodata duchessa Maria Luigia d’Asburgo e a un Caseificio Sociale…
E’ un bel sabato mattina del 28 aprile, Santa Valeria, sole e limpidi panorami ancorché piatti. Lascio Colorno e punto su Novellara, felice per il Tusòn omaggiatomi, non meno che soddisfatto per aver riportato a giusta quota i miei entusiasmi asburgico-parmensi da cui il sospiro che notifico al cortese lettore.
Quando si viveva bene nelle “piccole Patrie”
Bei tempi, quelli dei tanti miniStati, principati, ducati (all’insegna del “Piccolo è bello”) un tempo felicemente prosperanti eppoi scioccamente cancellati (nel nome e per conto dello stupido concetto di Nazione da cui lo Stato sopranazionale anch’esso carico di insidie se non governato con pugno di ferro…). Il tutto per dar vita a stolte ammucchiate di genti separate da differente storia, tradizioni, dialetti, costumi, abitudini, mentalità, economia, gastronomia, cultura (sì, proprio la Koiné). Etnie che in comune non avevano nemmeno la stessa “lingua comune”, quella di tutti i giorni, usata in casa, al bar, con gli amici (e se si parla di Belpaese basti accennare a recenti dati informanti che nello Stivale tanta gente si esprime ancora nel suo dialetto).
Quegli staterelli che in Romagna-Emilia abbondavano (ecco forse una spiegazione dell’attuale benessere della regione, della sua alta qualità della vita), vi entravi e ne uscivi in fretta senza quasi accorgerti. Dal Ducato di Parma e Piacenza (Farnese, Borboni, Maria Luigia) eccoti (mi sta accadendo, tra Colorno e Novellara) in quello di Modena (gli Este) e poco più in là di Carpi, se punti a est prosegui verso l’elegantissima (basta visitare i palazzi dei Diamanti e Schifanoia) Signoria rinascimentale degli Estensi di Ferrara. Se invece ti dirigi a sudest entri nel bolognese.
Nell’ex Stato della Chiesa
Dominio dei “Prit”, i preti dello Stato della Chiesa (dopodiché c’è ancora chi si stupisce apprendendo che, almeno un tempo, i “rumagnòl” oltre che mangiapreti erano possenti “biastmadùr”, bestemmiatori e dalle parti loro girava la barzelletta di due cacciatori notturni, uno dei quali, intravedendo nell’oscurità una sagoma nera urla all’altro “Spara, spara, potrebbe essere un prete”.
Guido un pochino veloce e poco prima di Novellara mi stoppa una pattuglia dei locali vigili urbani. Si tratta soltanto un controllo, grazie al quale instauro due chiacchiere e scopro che nella cittadina reggiana esiste ancora la Cantina Lombardini.
Novellara è località a me cara perché terra di amici (da lì proviene la Gens del Papi, organizzatore dei viaggi dell’Inter, compito delicato assai, “me racumandi”) e perché potrebbe fregiarsi del titolo “città storica del Turismo italiano” avendo dato i natali alla mitica “dottoressa Benati”. Quella “Ciacia” che col non meno famoso “dottor Cossa” fondò “Vacanze” e inventò quei “Villaggi all’italiana” che (soprattutto) alle Maldive, trovarono sublimazione e trionfo (si parla di un mini impero del “mundillo” del turismo italico, roba a quel tempo considerata indistruttibile fin quando il lattivendolo Tanzi non ci si mise su le mani e fece strame del tutto in men che si dica).
Ristoranti buoni? Si, ma a “orari ridotti”
Al contrario dei sullodati amici (la Ciacia scomparsa, il Papi ad Appiano Gentile a spiegare ad Adriano che per viaggiare occorre andare all’aeroporto, meglio se in orario) a Novellara la Cantina Lombardini (che erano pure cugini dei Benati) esiste ancora ma (o tempora o mores, i giovani d’oggi “gh’an pu voeuja de fà un càsu”) il discendente del titolare (pure lui mio amico) il sabato mattina chiude.
Trafelato mi precipito nella prima Boutique del Vino che incontro (eh si, ormai in Romagna-Emilia mica che tu entri più in una merceria, un salumaio, una Cantina Sociale, no, ormai si compra solo in una “Boutique”, della Mutanda, della Mortadella, del Vino). Trafelato, dicevo, (avevo infatti garantito a chi mi ospitava che avrei pensato io a bagnare il Ponte del 1° Maggio con quei quattro o cinque cartoni di vino che nel “Capitale” Karl Marx assegna a ogni proletario in occasione della Festa del Lavoro) ma anche preoccupato, perché mai nella vita avevo proceduto ad acquistare alla cieca sì importante nettare. Ma ecco premiata la disperata audacia perché il Lambrusco della Cantina “Due Torri” di Montecchio passa piacevolmente attraverso il palato allappando e al tempo stesso dando evidenza di sostanza.
Primo, secondo e dessert: solo Pasta! Quella di Osama
Il tempo di issare il carico previo ovvio veloce assaggio (una bottiglia va già in un amen eppoi verso le tredici quelli della Stradale son già tutti a tavola) e via, alla ricerca di un posto dove mettere i piedi sotto il tavolo con ascendente “Cappelletti, Cappellacci, Tajadèl, Tortelloni”. Tempo fa, gentilmente invitato dal Perini della carpigiana Modaviaggi, avevo degustato tagliatelle da inginocchiatoio (verifichi il cortese lettore non senza in precedenza chiamare lo 059 662691, sennò rischia il flop accaduto allo scrivano) alla Trattoria Baldini in quel di San Martino in Secchia.
Là pertanto mi dirigo, ma invano, è chiusa: ormai i ristoratori son più ricchi dei loro clienti eppertanto orari e date di apertura li fanno loro.
Proseguo e arrivo a Camposanto (ma forse, alla faccia del nome, mena più gramo Chernobyl) per rifocillarmi “emilianamente” alla Trattoria Bar “Bottegone”.
Sono già seduto a tavola (e comunque – curioso come mi ritengo – sarei rimasto anche se non avessi dovuto ricorrere ad alcuna giustificazione per fuggire) quando sento un avventore che saluta il cuoco-padrone dicendogli “Ciao, Bin Laden”.
Indago e sul menu scopro che il Nostro si chiama appunto Samir Osama. Eppur non tremo (quantomeno gastronomicamente) perché ben so che ormai i migliori pizzaioli dell’Universo risultano essere gli egiziani (da quando a Napoli hanno scoperto attività ben più lucrative che star lì a fare Margherita e Marinara). E difatti ho goduto un più che dignitoso “pasto tipico” che uso consumare appena mi ritrovo nella mia Koiné (di primo, Cappellacci di zucca al pomodoro, come secondo Tortelloni di ricotta ed erbette al burro fuso e per dessert Tagliatelle al ragù).
A ‘sto punto, “Quo Vadis?” chiederà l’adorato lettore.
E io gli rispondo: “Ferraram peto”. E riferirò.
(fine seconda puntata)
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3 L’Emilia, le Romagne, Ferrara estense (3a puntata)
per mondointasca.org del 24/5/2005 …
Dopo doverosa non meno che goduta visita della parmense reggia di Colorno (ducato di Parma, Piacenza e Guastalla) con altrettanto doveroso acquisto di Grana e assaggio di Tusòn (vedi prima puntata) la canonica gita pontificante il 1° Maggio e avente per meta la mia Koinè della a me cara Romagna-Emilia è proseguita (seconda puntata) a Novellara (ducato di Modena e Reggio nell’Emilia) per necessario pit stop di Lambrusco nonchè a Camposanto per il per me abituale (quando mi ritrovo nella mia Koinè) “pieno di primi tipici” (pure stavolta buoni ancorché ammanniti da uno chef forse – non si esclude – parente di Bin Laden) .
Esco dal Bottegone di Camposanto un filino appesantito dall’invero non macrobiotica deglutizione di tre “primi” (fosse solo per evitare di dover comandare anche un secondo piatto e il dessert) eppertanto – all’insorgere del quinti ruttino – mi chiedo anzi mi accuso di forse eccessiva esagerazione. E invece no, non esagero, perché penso (e trovo logico) che se uno parte da lontano e va (apposta) in un posto, una regione in cui eccellono alcune specialità gastronomiche, costui non possa far altro che “togliersi la voglia” dell’oggetto del desiderio.
Tanto per citare un altro esempio auto-assolutorio, quando vado nel “deep south” piemontese (Monferrato e Langa) ben noto per la Carne Cruda (a Milano totalmente inesistente o male ammannita con stupide e demenziali rivisitazioni) ne ordino e me ne mangio quattro o cinque portate, appetto ad amici e conoscenti pirla che si limitano ad assaggiarla come antipasto, dopodiché chiedono se c’è la ribollita e la cotoletta alla milanese (e infine, al dessert, invece di due o tre deliziosi piemntesissimi Bunett, guardano il carrello dei dolci sperando di trovarvi una cassata alla siciliana).
Ferrarese, terre di mezzo
Lascio la provincia di Modena, non senza ricordare i bei tempi andati, trascorsi a Carpi tra amori, tigelle, gnocco fritto e borlenghi (roba che stavo orazianamente per riscrivere l’ode… Carpi Diem) e perdonando l’oltraggio infertomi poco fa dall’egizio chef “Bin Laden” (che al momento della comanda mi aveva chiesto se volevo “mezza bottiglia di vino”, al che, risentito e ritenutomi offeso, avevo risposto “mezza bottiglia di vino la proponi a tua sorella”).
Entro in Terra Ferrarese, che per me, se devo dire quello che penso, cioè il vero, non è più Emilia-Emilia perché contiene quel “plus” di multietnico che comprende a sud parte della Koinè romagnola (accomunata a quella emiliana solo per bassi interessi imperialistici industriali tendenti a colonizzare il Sangiovese e la Piadina) e a nord la mai troppo venerata cultura della Serenissima Repubblica, l’unico Stato indipendente e serio (salvo brevi intervalli nel Rinascimento e i piccolo staterelli da me lodati nelle precedenti puntate, ma tutti, o quasi, dipendenti da monarchie straniere) che lo Stivale possa annoverare dal tempo dei Romani all’Unità d’Italia (voluta dalla regina Victoria, sennò col cavolo).
Aglio “mon amour”
Prima di arrivare alla mèta (Ro Ferrarese, e vabbè c’è pure la farmacia della mamma di Sgarbi, nemmeno i luoghi abitati sono perfetti, ma il posto è quieto e carino) passo per Casumaro che si dichiara (tramite un cartello stradale all’ingresso dell’abitato) “la città delle lumache”; non so cosa ne pensi Monsù Agnesina di Cherasco – che anni fa intervistai a proposito di Escargots – da sempre noto come il Re della Lumaca nazionale, nonché fondatore dell’Istituto di Elicicoltura, ma questa, direbbe Kipling, è un’altra storia.
Ma eccomi a Ro, mi trasformo in Camallo (ci sono i cartoni di vino da scaricare) e intanto cerco scuse per evitare le insane richieste del figlio dell’amico ospitante (vuole essere portato sulla sponda veneta del Po a vedere la Casa Natale di Lele Mora o quantomeno, in subordine, l’atelier dove esercitò da parrucchiere).
E la scusa la trovo. E’ infatti d’uopo andare a fare shopping a Gradizza, località satellite di Copparo, il cui bravo macellaio propone gustoso Somarino e profumato salame all’aglio. Si acquista e si commenta ma resta lettera morta una mia proposta di gemellaggio con la novarese Borgomanero, patria del Tapulòn, sapido ragù di asino che molti, ahiloro, ignorano. Quanto all’aglio, per acquistare qualche bulbo di questa adorata Liliacea, ci trasferiamo (sempre meglio “andare alla fonte”, una volta, in gioventù, partii per Pontecagnano solo per andarvi a gustare la rinomatissima pizza di un ristorante locale) ci trasferiamo a Voghiera, alle porte di Ferrara. Divertente la sua Fiera dell’Aglio nel primo weekend di agosto, “anche” internazionale: l’anno scorso vi partecipò pure una cittadina che da circa 800 anni celebra una Feria “agliacea” ubicata nella spagnola Castilla y Leòn.
Da “Future Memorial City”… a Pomposa
Più o meno al centro della bassa tra il Po e Ferrara c’è poi una località c’è poi una località in cui prima o poi ci si va a sbattere (ma visitarla non è un “must”, un obbligo e chi ci trova qualcosa da vedere sarà premiato per l’ottimismo), trattasi di quella che è universalmente nota come la storica e ben nota “Città Preveggente”.
Si tratta di Formignana che già nel lontano 1100 così decise di chiamarsi in onore di Federico Formignani, direttore di “Mondointasca”, prevedendone appunto, di lì a qualche secolo, la fama universale che avrebbe raggiunto nel vasto campo – canapè pasticcini spumantino e ogni tanto un bel famtrip – della letteratura turistica (se stavolta non ci scappa l’aumento, meglio rassegnarsi per l’eternità, ndr).
Scherzi a parte (e serietà impone) meglio (d’altronde mica tutti i centri abitati possono valere Veneiz o Firenze) scordare Formignana (e ancor più Formignani) e recarsi subito alla non lontana, magnifica abbazia di Pomposa. Un che di tenerezza ti pervade di fronte a tanta storia e tanto misticismo, ma una perfida quasi leggenda ti rinvia immantinente nelle caduche debolezze umane. Sembra infatti, secondo malelingue d’antan, che le formelle di ceramica appiccicate su pareti e campanile di cotto siano costituiscano soltanto fedeli riproduzioni. Quelle originali, all’inizio del secolo scorso, se le era vendute il priore onde pagare, con quanto ricavato dal maltolto, le prestazioni nonché i minuti piaceri delle sua tante amorose.
E un grazie a Paolo, mio scout nonché lughese doc (che pertanto prima o poi imparerà a fare i Passatelli, datosi che li faccio meglio io …)
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