1 Romagna mia …. Ode a una Tierra Muy Querida (scusandomi nuovamente per non elegante leggibilità … dipendo ahimè da altri…)

Dotto. Ma anche scanzonato e irriverente. Insolito reportage non solo gastronomico nella terra del Sangiovese………………………..
nella foto di copertina, Lugo, il Pavaglione

Rocca San Casciano

Rocca San Casciano

Propormi di andare in Romagna? È come invitare un’oca a bere! Alla pascoliana terra del Sangiovese andrei anche a piedi (e la stanchezza di vivere in una Milano ormai vocata solo ai danèe è l’ultima delle motivazioni), figuriamoci se comodamente seduto su un’auto (con qualcun altro al volante, visto che guidare sull’autostrada – come diceva il Passatore – mi rompe i maroni, e sulle strade statali odio finire cuccato per eccesso di velocità da vigili che ti depredano legalmente – nulla rischiando, a differenza del sullodato Robin Hood rumagnòl – solo per rianimare il c/c del loro Comune). Ma perché tanta aficiòn romagnola? D’accordo, mio padre era di Lugo, quindi nel deep south della Romagna – Emilia (più che all’ordine alfabetico, ritengo più equo assegnare le precedenze all’importanza). Ma, figlio di madre novarese, avrei anche potuto affezionarmi al Piemonte (oltretutto fui portato a nascere a Torino, e lì fortunatamente mi andò di lusso non divenendo juventino) terra seriosa che, beninteso, stimo e apprezzo (Barolo, Barbaresco. Barbera) però non riesco ad amare visceralmente. Le ragioni? Va a sapere o, forse, perché i miei semi paìs piemontesi han dato ricetto per troppo tempo a quei pidocchiosi – non lo dico io, fu il Giuanìn Brera a scriverlo – dei Savoia, mentre, si sa, la Romagna è fieramente non meno che totalmente repubblicana (tant’è che sulla scalinata del municipio di Ravenna una lapide rammenta che il 2 giugno del ’46 per la Ripoblica votarono in più di 40.000 e per la monarchia solo pochi intimi).

Oltretutto, “torno” in Romagna quasi sempre in compagnia dal mè amìs Paolo, che, lui sì (a fronte dello scrivente, semplice meticcio) è lughese doc 100% (e come me, di Milano salva ormai solo il Camparino e quelle rare mescite di vino in cui bevi bene e non ti fottono con la modaiola Happy Hour, in cui paghi una cifra per un solo calice e gli avanzi del ristorante di fianco). E oltre al piacere di scoprire con un amico la terra solatia dei Guidi e Malatesta, durante le zingarate romagnole Paolo mi fa tanto sentire come il generale Custer (lui girava nel West coi gli scouts Sioux addetti alle traduzioni, io mi avvalgo di Paolo a mò di Berlitz con gli indigeni di Forlì e Brisighella, perché provate voi a capirlo, il romagnolo, soprattutto quando viene sibilato con quella Z che pare una scudisciata).

Ma dove vado, quando lascio (ahimè solo provvisoriamente ma contento) Milano e arrivo in Romagna dopo doverosi pit-stop di Lambrusco e Culatello (da cui si evince che anche l’Emilia mi piace assai, anche se quei balossi degli indigeni definiscono spregiativamente i rumagnol “i bagnini”, però, poi vengono a divertirsi a Remmìn e Rizziòne)? Beh, c’è solo l’imbarazzo della scelta, tanto, ovunque tu vada non fai fatica a trovare un bicchiere di Sangiovese (Bacchelli suggerì come, se ti perdi, non faticare per sapere in quale delle “due regioni” ti ritrovi: entri in un casolare, chiedi da Bè e se sei in Emilia ti portano acqua, in Romagna ti porgono il vino). E mi riferisco al Sangiovese, che poi sarebbe uno dei (soli) tre santi in cui credo (gli altri due? San Fermìn, quello che a Pamplona mi protegge durate le fiestas, e San Siro, beninteso quello di rito interista). Problemi, dicevo, di dove andare una volta giunto in quella che il conte Rognoni di Cesena (grande personaggio, non solo dello sport) definì la Libera Repubblica di Romagna, non ne ho. Oltretutto (elementare, Watson, dopo una vita che vi bazzichi) non si contano i numi tutelari che rendono viepiù piacevoli e goduriose le mie apparizioni laddove si esibì il bravo Passatore (Boncellino, un tiro di schioppo da Lugo, e poco distante era nato il suo gregario alias Dumandò solo perché curioso e voglioso di sapere).

Tra i pii che tra collina, coste e pianura del pianeta Romagna tuttora mi rivolgono la parola mi vanto di annoverare (ça va sans dire quasi tutti bazzicanti i Viaggi&Turismo nonché il giornalismo gastronomico): i coniugi Dolcini in quel di Predappio, Vanni e Lina da una vita corifei di quella terra, e che meraviglia quella loro casa collinare (quando ci penso vorrei tornare … e vai col lìssio); Bruna, facente viaggiare a Ravenna; Maria Teresa, da Cattolica mio informatore sul porsùt di Carpegna; a Forlì oltre che dotta prof universitaria la Gloria Bazzocchi è sorella nerazzurra del locale Inter Club; e Davide Paolini (Santa Sofia) è quel grande giornalista (Il Sole 24Ore, gastronauta) che mi ha inserito nella Storia definendomi massimo conoscitore italico del Pata Negra iberico. Già, il magnèr, mangiare. E rieccomi in giro col mio scout Paolo nonché vicino di tomba (appunto in quel di Lugo) io vicino a quella di Longanesi, lui a quella di Baracca (che da lustri tenta di scimmiottare tentando, invano, di sollevarsi su precari deltaplani).

Colonna dell'ospitalità a Bertinoro

Colonna dell’ospitalità a Bertinoro

Specialità di Paolo sono i Capaltaz, grossi tortelloni che regolarmente, all’inizio di ogni inverno, assicura di voler elaborare e cucinare (ma, pigrissimo, sono ormai vent’anni che non finanzia la Fernet Branca). Perché questo primo piatto (che poi vale tutto un pasto) della collina romagnola è spaventosamente pesante, di cui alla ricetta: impasto di farine possibilmente variè e acqua, ripieno di castagne bollite e mostarda senapata, dopo bollitura siano conditi con pane grattato, olio e pepe (se non bastasse il Fernet c’è sempre l’Alka Seltzer). Meno letali sono invece di Passatelli (facili, li so fare anch’io, e sovente meglio di Paolo): metà pane grattato, metà forma (nel senso di grana grattugiato) e un uovo a cranio, il tutto passato (escono grossi spaghetti) attraverso un curioso strumento bucherellato (si trova sulle bancarelle al mercato di Lugo il mercoledì, in assenza va bene un passapurè) e fatto cadere in un (buon) brodo (chi conosce cos’è il cappone ha capito tutto). Non senza premettere che le Tajadèl (tagliatelle) della Benilde a Bertinoro restano somme (ancorchè le sciurette milanesi storceranno il naso alla vista dell’umile locale), se si passa ai secondi riecco Paolo esperto di E Castrè (il castrato) che gli stolti schizzinoosi snobbano per la povertà della genìa e invece è saporitissima carne (e più che alla brace, lì finisca la bacchetta, il mio scout ne cucina lo spezzatino in gustoso umido, il tutto non privo di insaporente, romagnolissimo Scalogno). Altri piacevoli (ma, come giusto, un filino ruvidi) sapori? Glissato sulla Piè/piada, piadina (e in Romagna – Emilia esiste un, minimo, centinaio di altri modi per chiamare ‘sto plurimillenario mangiare) non resta che passare al dessert. Leggasi Fichi giulebbati e Squaquerone (stracchino da vacche stracche, quindi meglio in primavera) e in Romagna (con tutto quel ben di dio di frutta ivi raccolta) fanno bene financo la crostata. Qui giunti non resta che ricordare che sul magnifico pianeta romagnolo aleggia la Bibbia mangereccia nazionale (Pellegrino Artusi, di Forlimpopoli/Frampùl, “L’Arte di Mangiar Bene”, e non si perda in giugno un Certamen aperto ai cuochi dilettanti). Ma si corra subito ad acquistare anche il Vangelo gastronomico del (altrettanto) rumagnòl Olindo Guerrini alias Lorenzo Stecchetti (Sant’Alberto, Ravenna) leggasi “L’arte di utilizzare gli Avanzi della Mensa”. Letteratura suggerita da Paolo, mio scout nonché lughese doc (che pertanto prima o poi imparerà a “fare i Passatelli”…)

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2 ROMAGNA E LE SUE RAFFINATE TOVAGLIE

per www.mondointasca.org

ita tovaglie ruggine ridUn tempo venivano chiamate “Le Romagne”, quasi fosse un continente da sdoppiare, come le due Americhe. “Dolce Paese”, così piccolo eppure parecchio noto, chiacchierato, cantato, ammirato…

C’è la casadeiana “Romagna mia” lontano dalla quale “non si può star”; ma chi torna, invece del “lìssio” contadino si ritrova i luciferini ritmi psichedelici delle discoteche riminesi.
C’è anche la deamicisiana pistolata strappalacrime di “Sangue romagnolo”, mentre sul De Amicis di “Cuore” è meglio stendere un velo pietoso – ogni pagina una sinfonia di “sfiga” – e ricordarlo, invece, ottimo giornalista, per un bellissimo libro-reportage su un viaggio in Spagna del 1873.
Fellini, Passator Cortese e Tonino Guerra a parte (senza contare i bagnini, i “mosconi” e i venditori di “bomboloni”), esiste poi il mito-immagine della “Romagna repubblicana, anticlericale, anarchica”, della sua gente orgogliosa, un filino ruvida ma schietta, comunque ricca di teste matte.
Dopo tutto quel che combinò nel Belpaese, il più noto degli stereotipi regionali resta Benito “Muslèin” duce “fasìsta”; una glottide romagnola non potrà mai pronunciare correttamente le consonanti “sci”, “sce” e il pronome francese “je”, in compenso la “z” proferita da un “burdèl” (ragazzo), schiocca come un colpo di frusta.
Ma vieppiù romagnolo, quindi veemente, fu l’ardore di Felice Orsini, Meldola, 1819, soltanto un po’ sbadato nel non affiancare alla vocazione un minimo di tecnica: andò a Parigi espressamente per tirare una bomba a Napoleone III e signora, con il risultato che entrambi risultarono illesi mentre tredici poveracci, colpevoli solo di stare a guardare, si ritrovarono stecchiti.

Una parlata scoppiettante
Non meno romagnoli “doc” sono i protagonisti anonimi di battute: “Spara, spara” – diceva un cacciatore al collega mentre una sagoma nera si muoveva nel buio della notte – “potrebbe essere un “prit” (prete)”.
Altro identikit della gente di quaggiù: un romagnolo è colui che, se stai affogando, non ti lascia annaspare: o ti tira su o ti spinge a fondo.
Oppure di vicende istituzionali, vedi i risultati del referendum monarchia o repubblica, scolpiti nel marmo sullo scalone del municipio di Ravenna: Repubblica 40.000, Monarchia 400 (voto più, voto meno), ma per designare un posto dove regna il caos in Romagna si dice “L’è na ripòblica”. Non per niente, solo in Romagna molte Case del Popolo sono repubblicane e pertanto espongono la loro brava bandiera rossa con l’edera al posto della falce e martello.
Emblemi, luoghi comuni, personaggi, connotazioni, caratteristiche peculiari della Romagna. Tante.

Artigianato d’antan
Ma ne manca una: il raffinato artigianato della tela stampata a mano e destinata soprattutto alla confezione di pregiate tovaglie (ma anche tende, lenzuola, grembiuli), prevalentemente colorate a ruggine.
La capitale di questa originale produzione è facilmente localizzabile, pur trovandoci in una terra dall’incerta geografia; Bacchelli scrisse che l’unico modo per riconoscere il confine tra Emilia e Romagna consiste nell’andare in una casa colonica e chiedere da “vè”: se ti danno acqua sei in Emilia, se ti viene porto un bicchiere di vino eccoti in Romagna, nel cui dialetto, non a caso, vino si dice “e vè”.
Si tratta di Gambettola, a due passi da Cesena, al centro di un “melting pot” di dialetti che nel raggio di pochi chilometri fa cambiare nome alcune volte alla romagnolissima piadìna (pida, piè, pièda). E se Gambettola è la Mecca della tela romagnola stampata a mano, i Pascucci dell’omonima antica Bottega (datata 1826, attualmente otto dipendenti) ne sono i profeti.

I colori delle stampe: verde, ruggine e blu

Ravenna, in Romagna ... plebiscito superfluo (vedi risultati, bastava girare in due bar...)

Ravenna, in Romagna … plebiscito superfluo (vedi risultati, bastava girare in due bar…)

La più importante caratteristica e peculiarità di questo prodotto artigianale – informa tra tovaglie e tende Giovanni Pascucci – è costituita dall’assoluta fedeltà al metodo tradizionale mediante l’utilizzo di stampi incisi a mano, bagnati nel colore e battuti col mazzuolo o mazzetto.
Se il colore è quello tradizionale e più richiesto, il ruggine, lo si ottiene da elementi poveri quali il ferro ossidato (curiosamente, Gambettola è anche la capitale italiana del recupero dei metalli invecchiati), la farina bianca e l’aceto di vino: guai a chiederne il dosaggio, il segreto è custodito dal capofamiglia, generazione dopo generazione.
Il blu e il verde sono invece applicati con una pasta colorante a base minerale.
Il tessuto più comune è il lino crudo o grezzo, usato anche per un “misto cotone” destinato soprattutto a biancheria e stoffe per abbigliamento. Ancorché limitatamente, all’artigianato della tela stampata va riconosciuto il merito di contribuire alla ripresa di coltivazioni da tempo quasi scomparse, per la produzione di tessuti che stanno tornando di moda.
Il lino proviene tuttora in filato dalle Fiandre, ma in Italia sono in aumento le superfici destinate alla bella pianta dai fiori azzurri. Nei campi, poi, grazie anche a sovvenzioni regionali, si comincia a rivedere la canapa, attualmente importata in maceri.

Vecchi attrezzi per la continuità
Una visita a una bottega di tele stampate, con quella patina d’antico che si respira, intriga non poco, riporta indietro negli anni; incuriosisce soprattutto per la presenza degli stampi e del mangano (strumenti e macchinario assolutamente indispensabili in questa produzione artigianale).
Gli stampi di legno di pero, tutti intagliati a mano, costituiscono un piccolo patrimonio dell’arte minore, popolare, romagnola: simboli onnipresenti il gallo e la “cavèja”, un’asta di ferro con anelli, sbalzata e decorata, che blocca il giogo dei buoi.
I disegni degli stampi non possono essere considerati eterni ma poco ci manca: appena gli anni ne evidenziano l’età, o qualche magagna, l’artigiano provvede alla sostituzione riproducendolo con arnesi rimasti identici nel tempo e passati di mano, da generazione a generazione. Emoziona prendere tra le mani uno stampo – ancorché parzialmente rinnovato – di fine Seicento, ammirare sui disordinati scaffali di una bottega sculture artigianali in legno che possono vantare due secoli di vita.

Nascono tovaglie e tessuti
Se il fissaggio dei colori rappresenta una fase notevole per l’estro espresso dall’artigiano nella scelta e nella stampa dei disegni, non è meno importante la stiratura, “dare il lustro” per mezzo del mangano (che un dépliant della Bottega Pascucci definisce “una sorta di primitiva pressa del secolo XVIII che viene mossa manualmente”).
Fiore all’occhiello della stamperia Marchi, nel centro storico della medievale Sant’Arcangelo di Romagna, un antico mangano di legno e pietre, datato 1633: secondo il cortese proprietario si tratta dell’unico esemplare, per peso e dimensioni, esistente al mondo, certezza ribadita su un pieghevole che rinvia (testuale: Vedi – Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, 1751–1772) nientemeno che al Secolo dei Lumi.
Come si muove un mangano? Basta un uomo che si dondoli all’interno della sua enorme ruota.
Aldo Spallicci, poeta e uomo politico (ça va sans dire) repubblicano, nonché nume ispiratore della celebre “Cà de Bè” di Bertinoro, tempio più che enoteca dei vini romagnoli, decantò in versi i tessuti stampati di Marchi, espressione della laboriosità della sua terra.
Chi visita la bottega di Sant’Arcangelo scoprirà inoltre che le tele romagnole recitarono una particina nella vita sociale della regione.
Con motivato piacere, Marchi mostra una bellissima gualdrappa di canapa (rinforzata con telo posteriore, 1850 circa) di proprietà – non mancò di annotare lo stampatore – dell’agricoltore Fellini Primo: addobbante i buoi durante la processione di Sant’Antonio, protettore degli animali, la gualdrappa testimoniava non solo la devozione (siamo negli anni delle “Romagne papaline”) ma anche l’elevato benessere, se non la ricchezza, di chi la commissionò.

Un artigianato più che mai vivo
Fortunatamente l’artigianato delle tele romagnole non è in crisi, e il suo futuro è tutt’altro che in pericolo, anzi. Unico tra gli attuali stampatori ad abdicare, il sommo Visini (le sue tovaglie erano qualcosa di più di bellissime opere artigianali), in quel di Meldola: in assenza di una successione famigliare – commenta l’intervistato – propose a qualche giovane di “entrare in bottega e imparare il mestiere” ma si ritrovò, lamenta, in un mare di rivendicazioni sindacal-salariali, richieste di tredicesime e contestazioni su sabati e ferie, tanto da convincersi che era meglio tirar giù la “clèr” ed evitare beghe con l’attuale moda del “tutto e subito”.
A difesa e tutela di questa antica pratica artigianale è sorta a Cesena una Associazione di Stampatori composta da dieci botteghe (distribuite su un territorio compreso tra Forlì e Riccione, Santa Sofia e Ravenna) che con romagnola passione per la schiettezza hanno persino stampato una “Guida per il consumatore”. Nello stampato si precisa – non si sa mai, con la cosiddetta gente ormai adusa ad acquistare soltanto i prodotti globalizzati dei supermarket – che “a differenza di quello ottenuto da stampa serigrafica, con tinta piatta e colore uniforme” il disegno stampato a mano “può presentare sfumature e diversa distribuzione del colore”.

Consigli per gli acquisti

Consigli per gli acquisti

Una benemerita difesa delle tradizioni e del patrimonio artigianale non esclude comunque idee nuove e innovazioni culturali. Chi entra nella citata Bottega Pascucci, di fianco ai canonici disegni “doc”, colorati in ruggine, ammira tele con delicati disegni color pastello di fiori e animali, commentati da didascalìe di Tonino Guerra.
Portare a casa una bella tovaglia romagnola, di lino grezzo, non costa caro (circa 90 Euro, lunghezza 1 metro e 80, con 6 tovaglioli) tenuto conto della sapiente capacità profusa nel lavoro. E se mai “l’azdora” (o “razdora” da “reggitora”, duce supremo della casa romagnola) temesse di sporcarla con il sapido ragù dispensato sulle “taiadèl” (tagliatelle meglio se confezionate con le uova d’oca o di quaglia) niente paura per il lavaggio: la prima volta non strofinare, insaponare e, dopo aver sciacquato, immergere in un bagno di candeggina o varechina diluita in acqua fredda; i successivi lavaggi potranno essere eseguiti in lavatrice fino a 90°.

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3 ROMAGNA, REPUBBLICA DEL ”LISSIO” E DELLA ”PIADINA”

Da Casadei a Stecchetti, da Anita a Mussolini, evviva le belle ‘burdèle’ e il Sangiovese
gpb per mondointasca.org del 23/3/2009

 

Lugo, la Rocca

Lugo, la Rocca

Disinvolto resoconto sulla terra del Passatore, lardellato di epigrafi e scritte solo a prima vista eccessive. Una “regione” nella regione, ricca di storia e di personaggi una “Romagna solatìa, dolce paese, cui regnarono Guidi e Malatesta; cui tenne pure il Passator cortese, re della strada, re della foresta”.
L’incipit, il decollo di questo scomposto non meno che disordinato raccontino sulla Romagna (o – come si diceva antàn – le Romagne, nella versione al plurale spettante a tutte le grandi, vaste e poliedriche terre del mondo) non poteva che toccare alla poesia di Giovanni Pascoli, beninteso romagnolo doc. E di poesia, di detti e massime, di frasi celebri e non, di battute e filastrocche risalenti e accreditabili a gente celebre e meno celebre, il tutto relativo a fatti e vicende della regione (che conta anche su una sorta di ‘dèpendance’ nota come Emilia) sarà lardellata questa narrazione (non vorrà pertanto infuriarsi il cortese lettore se gli capiterà di imbattersi in un eccesso di virgolettature o frasi in corsivo).

Geografia complicata (e preti poco graditi….. segue foto….)
A lui, al gentile lettore, giunga dunque il benvenuto portogli dal sorriso di una “bèla burdèla” (ragazza) che poi sarebbe la romagnola, romagnola bella, di Rimini, Lugo e Brisighella. Ma, a parte Gatteo a Mare, a tutti geograficamente nota non per il Rubicone che la bagna, ma perché immortalata da una composizione musicale casadeiana (se tu vieni a Gatteo a Mare, le ragazze tu vedrai ballare) dov’è mai ‘sta Romagna? Eccone pertanto le coordinate: trovasi tra la provincia di Ferrara (fiume Reno) a nord e le Marche a sud (ancorché i romagnoli duri e puri del “deep south” ravennate e lughese giurino che la vera Romagna finisce sul Rubicone, eppertanto, riferendosi ai riminesi, ricorrono allo spregevole epiteto di “marchigiani”); è inoltre situata tra l’Adriatico a est e la provincia di Bologna a ovest. Ma se si parla del confine occidentale romagnolo-emiliano (dalle parti di Imola) è forse meglio andare cauti, evitare certezze, per il semplice motivo che una vera e propria linea di demarcazione non esiste. Il mistero potrebbe anche essere risolto: basterebbe seguire il metodo suggerito da Bacchelli, peraltro sconsigliabile per l’eccessiva perdita di tempo e il rischio di perdere punti patente se obbligati a soffiare nel palloncino.

Terra del Passator Cortese
ita contro il clero relencini lugo rid
Scrive infatti l’autore del “Mulino del Po” (diciamoci la verità: noiosissimo romanzo che più palloso non si può e guarda caso è ambientato in Emilia, mica in Romagna) che per scoprire in quale terra ti aggiri, hai solo da entrare in una casa colonica di frontiera e chiedere “e bè”. E datosi che in precedenza hai perfezionato studi in filologia emiliana e romagnola, imparando che nel primo caso “e bè” vuol semplicemente dire “bere” (da cui l’orrida possibilità che ti porgano acqua) mentre in Romagna significa “vino”, ecco che ritrovandoti ubriaco scopri di essere nel pascoliano “Paese del Passatore”. Con le citazioni del Pascoli si è comunque finito, visto che di romagnolo, di positivamente contadino, il triste poeta non è che avesse molto (vabbè, la mesta vicenda della “Cavallina Storna” non è che capiti tutti i giorni, ma c’è anche gente che a volte la sfiga se la chiama).

Libera Repubblica di Romagna…
Molto meglio, quanto a “romagnolità”, con i relativi caratterini, altri personaggi (oltre, beninteso, il faentino Pietro Nenni e il predappiese Cav. Benito Mussolini, colui che, secondo i suoi conterranei – e ne erano certissimi – “aveva sotto due marroni così”). Grandi “rumagnòl” furono ad esempio, a metà del secolo scorso, il calciomane conte Rognoni di Cesena, corifeo e ancorché scherzoso vate di una “Libera Repubblica di Romagna” e il senatore Aldo Spallicci, ottimo poeta e Padre Coscritto in quel di Bertinoro della celeberrima “Ca de Bè” (e siccome per “e bè” si intende il vino, ci si vada a degustare tante ottime versioni di Albana, mentre per le “tajadèl” è meglio spostarsi dalla “Benilde” – ristorantino dalla validità inversamente proporzionale alla modestia – sulla salita conducente alla piazza del Comune). Superfluo aggiungere che Spallicci apparteneva al Partito Repubblicano, un curiosissimo fenomeno tutto romagnolo, perché, a parte qualche isolato aficionado in Sicilia e nella Toscana nord-occidentale, tutta la fazione dell’Edera (oggidì virtualmente scomparsa o quantomeno ridottasi agli epigoni di Giorgio, figlio del mitico Ugo La Malfa) era radicata in Romagna.

… all’insegna dell’appassita Edera
Perché fino a qualche decennio fa anche a Ravenna, Forlì e Cesena garrivano al vento tante bandiere rosse, ma mentre a Bologna, Modena e Reggio contenevano la staliniana Falce e Martello, in Romagna racchiudevano la foglia simbolo del pensiero di Mazzini e Garibaldi (se mai il buon Peppino ne avesse mai posseduto uno). E parimenti nelle località romagnole, non v’era Casa del Popolo senza la precisazione “Repubblicano”. Oggidì quel poco che resta del romagnolo spirito rivoluzionario e barricadiero lo si può trovare (alle pareti immagini di Marx, Guevara & C.) all’antico (1847) Circolo dei Mulnèr (mugnai) di Ravenna (per i soci e altri avventori è disponibile un cucinotto scaldavivande, i pigri portano invece il solo cartoccio rifocillante, divertente).

Clero e Savoia. Pruriti di pelle

Piadine a Ravenna

Piadine a Ravenna

Ad ogni buon conto, per scoprire che in Romagna – oltre al clero – i Savoia non ispiravano grandi entusiasmi, basta consultare i risultati del Referendum del 2 giugno 1946, ben scolpiti nel marmo sullo scalone d’ingresso al Municipio di Ravenna (Iscritti 59.024, Votanti 54.769, Repubblica 48.825, Monarchia 4.720). Due a zero e palla al centro. Ma come detto è il clero, il prete (non tanto il guareschiano don Camillo, quanto tutto ciò che sapeva, o sa, di papalino) che – almeno un tempo, leggasi fino a qualche decennio fa – non stava poi così simpatico ai romagnoli (antàn girava una barzelletta in cui due cacciatori notturni, vedendo nel buio una sagoma nera, esclamavano contestualmente “spara spara, che potrebbe essere un ‘prit’ ”). D’altro canto cosa deve (o doveva) pensare un povero cristo che un bel mattino si ritrovava vessato da un non meglio specificato Duca di Romagna (laddove si fa riferimento a quel bel tipetto del Valentino, al secolo Cesare Borgia) solo perché, a “metterlo su” era stato il babbo, meglio noto come papa Alessandro VI? E fu così che (a parte Faenza che il Lamone bagna la gente più ignorante di Romagna, nonché caposaldo della “nobiltà nera”) chi gira nelle città romagnole si imbatte in targhe, lapidi e monumenti assai poco riverenti nei confronti di Santa Madre Chiesa.

Icasticità di Olindo Guerrini
A Lugo, sulla Rocca, oggi Municipio, una lapide recita: Più che la pietra duri il ricordo di Andrea Relencini strangolato e bruciato qui presso nel 1581 per sentenza della S. R. Inquisizione ed ammonisca che la Chiesa non tollera ombra di libertà. Breve inciso: autore del sullodato anatema fu il mangiapreti non meno che blasfemo Olindo Guerrini, alias Lorenzo Stecchetti, che al suo paese natale, Sant’Alberto (Ravenna) dedicò il seguente sonetto: Bisce zanzare rane, gente pallida e scortese, tutte le donne son puttane, questo è il mio paese (ma nonostante cotanto verismo i suoi compaesani hanno onorato il poeta istituendo nella sua casa natale un interessante museo che, capitando nel ravennate, il cortese lettore vorrà convenientemente visitare). E di Guerrini-Stecchetti va anche ricordato il libro – a dimostrazione della sparagnina frugalità contadina romagnola – “L’arte di utilizzare gli avanzi della mensa”, curioso non meno che utilissimo ricettario, in tempi di crisi economiche e non.

Epitaffi “pro Ecclesia” …
Ma quanto a epitaffi e scritte anticlericali in Romagna, è Cesena a potersi definire la capitale. La città propone, da una semplice insegna stradale (Via Fanino Fanini, evangelico faentino, per la sua fede impiccato ed arso, Ferrara, 22-8-1550) alla lapide posta nel portico del Comune a ricordo (ne raccontò le gesta Gianni Magni nel film “Nell’anno del Signore”) di Leonida Montanari, che Ardito d’aspetto d’ingegno, splendido d’anima spassionata e gagliarda, ardente d’amor patrio, cospirò costante tra le file dei Carbonari in Roma dove il 23 Novembre 1825 lasciò sorridente la vita giovane sul cruento patibolo eretto dalla tirannide papale.

Ma su tutte, se si parla di scarsa simpatia per i “prit”, domina una lastra (datata 1903 e posta al primo piano della casa natale della vittima, in via Garibaldi 59) che così recita: La santità di Pio VII felicemente regnante e la congregazione criminale dei reverendissimi monsignori, invocato il divino aiuto giudicavano e condannavano alla morte civile Vincenzo Fattiboni, reo di avere consacrato la forte giovinezza, precursore e apostolo, alla libertà, all’eroica sposa e alle sue innocenti creature che dal dio cattolico e dal suo vicario Leone XII la pietà invocavano, rispondeva la mannaia in Roma, la forca in Ravenna, ma gli dei e i loro pontefici invecchiano e muoiono, la patria la libertà e le virtù restano …

… e per ogni occasione
Sempre in tema di lapidi e monumenti, ma senza invettive anticlericali (sembra però giusto ricordare che la Romagna si sorbì più di tre secoli di Stato Pontificio) si sorrida riscontrando il contadinesco “humour” romagnolo nelle scritte naif leggibili su due tombe del cimitero di Ravenna. Una lapide rammenta che chi lì giace Trascorse la vita riposando e qui continua, l’altra ricorda che il defunto Visse onesto benché fattore.
Tipo strano, il romagnolo. Se si parla di uomini predomina il “macho”: duro e puro, raramente comunica i suoi sentimenti, li tiene per sé e si guarda bene dal mostrare criminose debolezze (forse un po’ meno oggidì, ma un tempo, sotto i portici del bel Pavaglione di Lugo, se un marito veniva cuccato a reggere la borsetta della mogliera o a spingere la carrozzella correva il rischio di non poter più frequentare il bar, “ça va sans dire” rigorosamente precluso alle “femmine”). Va però anche detto che una sorta di autodifesa dalla donna romagnola, l’omarino se la deve pure inventare. Perché la “azdora” (reggitrice, padrona della casa) il suo bel caratterino decisionista ce l’ha, eccome. Un esempio?

Caterina e Annita, “azdore”
Oltre a Rachele Mussolini, che a conti fatti fu l’unica persona capace di incutere paura e comandare l’onnipotente dittatore e duce dell’Impero, è il caso di citare Caterina Sforza, la mitica “Grande Signora di Romagna”, colei che, difendendo a Porta Schiavonia le mura di Forlì dall’assedio dei faentini, alzò la gonna davanti al nemico che minacciava di ucciderle il figlio e mostrò quella che (molto volgarmente) i bagnini riminesi oggidì chiamano “pataca”, non senza commentare che con quel marchingegno avrebbe comodamente potuto riprodurre tanti altri discendenti vendicatori. Superfluo aggiungere che alla vista di cotanta “arma” della guerreggiante “azdora”, i faentini tolsero l’assedio. E “azdora” ad honorem dovrebbe essere proclamata Annita, la cui incredibile, affascinante vicenda fianco al Peppino Garibaldi, ebbe fine proprio in Romagna (alle Mandriole, pochi chilometri a nord di Ravenna, prima del Passo di Primaro; interessanti la casa – che sta divenendo museo – in cui morì e il poco distante cippo).

Il destino nei nomi…
Tipi strani, i romagnoli, per certo franchi e schietti (dicesi che se stai affogando e chiedi aiuto a un romagnolo costui non ti lascerà sguazzare nell’acqua: o ti tira su o ti spinge nei gorghi). E anche tanto diversi, quando non stravaganti. Vedi il caso dei nomi appioppati alla prole. Mussolini fu chiamato Benito in onore di Benito Juarez, il presidente del Messico che a metà dell’Ottocento fece polpette della Chiesa locale, istituendo la laicità dello Stato, il matrimonio civile e il divorzio. Un altro babbo (come diceva il grande riminese Fellini, in Romagna il genitore non si chiama padre né papà, è il babbo) si ritrovò una suite di figlie e (tracciando il solco ai tanti romagnoli che oggidì rispondono al nome di Lenin e Stalin) pensò bene di chiamare le prime tre rispettivamente Folla, Unita, Vittoria (se non che il destino beffardo, non meno che reazionario, impedì la venuta al mondo della quarta figlia, che, beninteso, non avrebbe potuto che chiamarsi Certa).

… e nei personaggi

Morale....

Morale….

E romagnoli curiosi, come un gregario della banda del Passator Cortese (a proposito, che bella la sua rapina di massa al teatro di “Frampòl”, in italiano Forlimpopoli: il pubblico si impaurì a tal punto che la sorella del grande Pellegrino Artusi, il Gualtiero Marchesi del tempo, perdette la favella!). Il nostro fuorilegge subalterno, di Boncellino, poco distante da Bagnacavallo, patria del grande genio Leo Longanesi (scrittore, giornalista, grafico) era talmente curioso da essere soprannominato “Dumandòn” per le eccessive domande che impietosamente rivolgeva ai colleghi briganti, anche a rischio di essere scoperti durante i rastrellamenti dei carabinieri pontifici. Oppure romagnoli incazzosi, senza peli sulla lingua e stravaganti. E’ il caso di “Chilone”. Antifascista, espatria in Francia, poi torna a Lugo e apre una “Ustarèia”, in italiano trattoria; e la sua – ahinoi oggi scomparsa per far posto a una boutique – fu davvero unica e mitica (fortunato chi potrà leggerne la magnifica descrizione reperendo l’ormai raro libro, “Bocca Cosa Vuoi” di Renzo Renzi e Dario Zanasi, prefazione di Cesare Zavattini, Cappelli editore).

Il “mitico” Chilone
Lugo. Il giorno dell’inaugurazione del monumento a Baracca, piomba nella ridente località romagnola una nobile delegazione della Casa Reale che, al termine della cerimonia, si reca da “Chilone” a pranzare. Ottimo pasto (si mangiava alla grande, di aperitivo c’era solo un buon bicchiere di Sangiovese – e così dovrebbe sempre essere – e il caffè era preparato con la tradizionale caffettiera) dopodiché una delle principesse chiede dov’è il cesso (che non poteva che essere alla turca, ndr), vi si infila e ne fuoriesce poco dopo lamentandone la precarietà. Al che il nostro, caro oste “mugugnone” guarda bene in faccia la Savoia e con romagnola schiettezza le chiede: “Mo, sora prinzèsa, ch’lè vegnù chì par magnèr o par caghèr?”. E visto che tutte le storie hanno sempre un seguito, la Savoia se ne tornò a Roma a far pipì al Quirinale, mentre “Chilone”, pervenuto alle ottantacinque primavere, decise che la moglie cominciava a infastidirlo eppertanto una bella notte la strozzò (messo in galera ci stette per un po’ dopodiché si stancò e, salito sul tetto del reclusorio, diede un calcio alla noia mediante un liberatorio salto nel vuoto).

Max David, invidiato da Hemingway
Meno tribolata (ma anche sufficientemente ‘peligrosa’, quando si ha a che fare con i ‘toros bravos’ non si sa mai) fu l’invidiabile esistenza di un altro importante romagnolo, eccellente inviato del Corriere della Sera, Max David di Zìrvia (in italiano Cervia; a proposito, chi passa da quelle parti e desidera mangiare un accettabile pesce dal buon rapporto qualità-prezzo faccia un salto alla variopinta e animata Cooperativa dei Pescatori, beninteso dopo aver visitato le storiche, restaurate Saline, un tempo veneziane). Max fu appunto un grande “aficionado a los toros” e durante un lungo soggiorno in Spagna (raccontò la guerra Civile e alcuni anni della successiva dittatura franchista) frequentò e conobbe così a fondo il “mundillo taurino” da scrivere un bellissimo libro sulla tauromachia (“Volapiè”, Bietti editore) che spinse il mitico Hemingway a confessare “Caro Max, vorrei saperne di tori quanto ne sai tu”. E proseguendo con la cultura romagnola, si torni a Cesena e tralasciando le già lette epigrafi anticlericali si proceda verso la monastica Biblioteca Malatestiana. Davvero un gioiello (dal 2005 inserito dall’Unesco tra le “Memorie del Mondo”), l’elegante edificio fu convento di frati francescani (forse per questo la cucina romagnola vanta gli “strozzapreti”, mentre non ha infierito sui monaci). Intrigante curiosità da non perdere, sul portale della splendida Aula del Nuti è scolpito un pachiderma (emblema araldico dei Malatesta) sulla cui groppa appare la scritta Elephas Indus Culices Non Timet(L’elefante – nel senso di sapienza – indiano, non teme le zanzare).

Trionfo finale, con l’Artusi e l’inno di Casadei
E se tanto girovagare per la Romagna/e avesse mai messo appetito, ecco una accorta ricetta: si prendano le tante pubblicazioni sulla “nouvelle cuisine” e si butti il tutto nella spazzatura, dopodiché si entri in una libreria ad acquistare “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” del grande (e già citato, ma per le brigantesche vicende create da Stefano Pelloni, il Passator Cortese, in quel di Forlimpopoli) Pellegrino Artusi. Dotato di questa vera e propria Bibbia Gastronomica (concepita e nata ovviamente in Romagna) chi fa da mangiare non solo non sbaglierà mai, ma godrà pure sapori antichi, genuini, ancorché stupidamente definiti caserecci e sorpassati (tutto il contrario di quelle “pugnette ristorantesche” ammannite oggidì solo perché “fa chic”, nel nome di una consumistica moda che purtroppo cucca pure tanti gonzi).
Letto l’Artusi, e imparato “cosa sono” tante parole che al momento possono sembrargli sconosciute (i Passatelli – beninteso preparati con il tradizionale ‘ferro’ -, i Cappelletti – di magro, sembra ovvio -; i già citati Strozzapreti; la Piè alias Piada o Piadina; la Ciambella o Brazadèla; il Savor; la Saba o Sapa; l’Albana; la Cagnina; il Pagadebit – l’ultimo vino, c’era quindi tempo per venderlo e pagare i debiti contratti) il gentile lettore capirà vieppiù cos’è la Romagna.
Dovendosi (ovviamente) chiudere queste righe Amarcord rimembrando Secondo Casadei, “vai col lìssio!”: Romagna mia, Romagna in fiore, tu sei la stella, tu sei l’amore; quando ti penso vorrei tornare, dalla mia bella, al casolare…
n.b. Per la precisione l’inno nazionale romagnolo nacque col nome “Casetta mia”; solo in seguito Casadei si accorse che l’aveva composto per le “Romagne” tutte.

 

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4 ROMAGNA, ECCOMI TURISTA TERMALE CONVERTITO

Laddove credevo che andare negli hotels Termali (in Spagna Balnearios) fosse roba da Saub e artritici in vestaglia … e invece ….
gpb per mondointasca.org del 30/11/10

Predappio

Predappio

Una vera e propria folgorazione sulla via di Damasco o Bertinoro che sia. L’invito a Fratta Terme, in Romagna, e la scoperta del Puro Relax: piscina, sauna, massaggi. E io, da sempre alla larga da docce e check up imposti negli “hotel termali”, eccomi smentito dai fatti….

La Lina e il Vanni Dolcini mi fanno: “Vieni a Fratta a conoscere il Grand Hotel delle Terme”. E io rispondo: “Ci vengo!” (n.b. ma non si vantino più di tanto, i miei diletti amici predappiesi per l’accettazione dell’invito: è infatti ben noto che convocarmi in Romagna – e Fratta Terme è frazione di Bertinoro, Forlì – è come invitare un’oca a bere).
Parto da Milano per la dolce pascoliana terra dei Guidi e dei Malatesta (ma detto tra noi mi attira anche un Sangiovese della Tenuta Zerbina dall’inebriante profumo di viola) e porto meco Paolo, mio vicino di tomba (unico mio possedimento terreno a Lugo di Romagna) ma soprattutto perfetto interprete simultaneo nel caso di eventuali miei rapporti con gli indigeni. E se il gentile lettore sorriderà è segno che non ha mai sentito parlare il dialetto romagnolo, un vernacolo così misterioso da essere usato da mio zio lughese – fondatore e comandante della Aviaciòn del Tercio durante la Guerra Civile spagnola – come cifrario nelle belliche comunicazioni telefoniche (una volta sistemati alcuni suoi avieri ‘rumagnòl’ nei vari aeroporti era impossibile per gli intercettatori ‘rojos’ capire cosa di dicessero quei diavoli dei franchisti).

Gita-benessere col vicino di tomba
Quanto a Paolo, nemmeno per attirare lui, in Romagna, occorre fare grandi sforzi. Basta dirgli che dalla Benilde a Bertinoro lo attende un sostanzioso piatto di paglierine Tajadèl – piatto unico del locale salvo ovvia piada e affettati, come si addice ai posti seri che non se la tirano – e Paolo comincia a perdere bava dalla bocca. Se poi la proposta producesse in lui un interesse solo normale, di piatti di tagliatelle provate a proporgliene due e lo troverete d’amblè sull’auto con il motore acceso e il volante in mano.
A tutta forza a Bertinoro, orsù. Perché, provo a ragionare, dove lo vai a trovare un posto che nello spazio di pochi chilometri ti riserva magnifiche tagliatelle, eccelso Sangiovese (ma non quello della Benilde, perché la bontà del suo ottimo ‘primo’ è inversamente proporzionale al precario vino che ti rifila, né si può avere tutto dalla vita), e il ‘Fratta’, sciccoso albergo termale mèta della mia gita? Quel tipo di hotel che gli spagnoli chiamano ‘balneario’, aggettivo che nello Stivale fa pensare a bagnini, spiaggia, ombrelloni e venditori con quei sostanziosi “bomboloni” che appena si alzava il Garbino cominciavano a riempirsi di sabbia indigesta (n.b. sto parlando dei “miei tempi” perché credo che i bomboloni abbiano ormai lasciato il posto a quelle orride merendine cellophanate con dentro 12 o 18 conservanti chissà se cancerogeni).

In hotel per misurarsi la pressione…
E invece il ‘balneario’ spagnolo altro non è che l’italiano Hotel con Terme. Una sorta di sistemazione turistica di cui ho sempre diffidato, per non dire che ne sono sempre stato alla larga, troppi erano gli aspetti negativi che mi facevano dubitare. In primo luogo, pensavo, se uno va in vacanza va in vacanza, e se uno deve curarsi va in clinica, eppertanto guardando da fuori non capivo quella gente che si aggirava con su gli accappatoi, sprofondata senza far niente dentro poltrone in vimini come nelle stampe di fine ‘800. E oltre agli impiegati vestiti come infermieri questi hotel termali non mi andavano bene perché consigliavano pure di fare le visite mediche, come se tu vai al ‘bureau’, chiedi se c’è una doppia col bidet e loro ti rispondono ‘vada a farsi misurare la pressione’. Certo così pensavo, si vanno a fare alla Saub (io oltretutto ho il ticket gratis grazie a vecchiaia e povertà) mica si va in albergo. Bando agli hotel con marchingegni, diavolerie docce e semicupi fangosi, vaporosi, solforosi o quel che l’è, scrissi e proclamai a lungo, docce e toilette me le faccio a casa mia, commentavo.

Che abbia inizio il “percorso”
E invece, a dimostrazione che le certezze contano come il 2 di briscola ed è sempre meglio farsi sfiorare da quale dubbio, eccomi smentito dai fatti. A tal punto da convertirmi, leggasi abbracciare la fede degli alberghi termali, nel breve spazio di poche ore, una vera e propria folgorazione sulla via di Damasco o Bertinoro che sia. Missionaria, la Manuela Weissteiner, marketing del Fratta Terme, che dandoci il benvenuto a sole tramontato suggerisce allo scriba e all’accompagnante vicino di tomba di farsi un “percorso” (o nome similare, escludo che abbia detto “pista”) laddove si trattò (indossato l’accappatoio, trovato“a gratis” in camera, ne avevo fregato uno identico 50 anni fa allo Sheraton di Londra, ma stavolta ero invitato) di camminare su è giù nell’acqua prima calda poi fredda, poi di andare in una piscina a farsi venire sulle spalle getti d’acqua che sembra faccia bene alla terza cervicale, poi (io, non Paolo che è un pusillanime cacasotto e ha il terrore degli sbalzi caldo/freddo) di farmi una bella Sauna (80° una decina in più e mi sarei sentito come nell’adorata Finlandia) e dato che era lì nella porta a fianco,vai pure col Bagno Turco!

La conclusione: viva le Terme di Romagna!

un bicchiere di Sangiovese....

un bicchiere di Sangiovese….

E la Manuela, dalla seriosa professionalità come se non bastasse il wagneriano cognome, a dirci inoltre che bastava chiedere e ci saremmo pure trovati tra fanghi e creme, unguenti e svariati trattamenti di bellezza (unico problema, la bruttezza del pelosissimo mio accompagnante e vicino di tomba: il solo tentare di farlo diventare non dico bello ma quantomeno presentabile avrebbe comportato il soggiorno di almeno qualche anno). E ci sarebbero stati pure i massaggi (!) ma vai a spiegare a Manuela che siamo gente seria, mica come quel Bertolaso. E il mattino, che goduria! Scendi e giri l’hotel in vestaglia (mica quelle orride brache che nei normali hotel prendi a caso dalla roba sporca e infili per andare a fare colazione eppoi tornare in camera), leggi (beninteso sempre in vestaglia) nella antan hall (più fine dire Lobby) il quotidiano in grazia di dio, eppoi te ne torni a farti un altro “itinerario” (quello della sera prima, piscina, getto della cervicale, Sauna ma non il Paolo, Bagno Turco). Davvero, relax.
E allora mi sono “turisticamente” chiesto: ma perché sfiancarsi tentando di raggiungere il centro di città puzzolenti, finalmente finire in albergo tra assordanti sirene variè, bidet che ormai non fanno più con lo spruzzo verticale, water della camera di fianco dallo sciacquone che credi sia quello di camera tua?
Metti il turista che visita la Romagna, in una manciata di minuti va da Bertinoro a Forlì e Cesena, in meno di un’ora a Bulàgna (Bologna), Cervia (Zìrvia), Rimini, San Marino, Ravenna.
Al ritorno, resta tra il verde, va in camera, si infila la vestaglia e vai! nel percorso (o quel che l’è). Ma mi faccia il piacere, questa è vita! Mi sono convertito, basta con la città. Gli Hoteles Balnearios, e io che credevo che fossero la Saub.