1 MONTAPPONE CAPITALE DEI CAPPELLI DI PAGLIA

(da Europa da scoprire Tci …. nel lontano, forse, 2005….)
Cappelli di paglia di tutte le fogge e una delicata leggenda d’amore delle colline marchigiane. Oltreché una fiorente attività artigianale, che resiste nel tempo…..

Nelle Marche... incontri inaspettati....

Nelle Marche… incontri inaspettati….

Alla domanda “Dove si producono i cappelli di paglia?” i giovani – ormai abituati a coprirsi il capo con i berrettucci yankee da baseball, per di più sbracatamente indossati con la visiera all’indietro – si avvarrebbero della facoltà di non rispondere.
I matusa, invece, esclamerebbero “Firenze”, risalendo con i ricordi a Odoardo Spadaro, grande chansonnier degli anni Trenta. “Il cappello di paglia di Firenze” fu infatti, insieme a “La porti un bacione”, uno dei cavalli di battaglia del “Maurice Chevalier italiano”, innamorato cantore della città del Giglio. Niente di tutto ciò.

Da Firenze a Montappone
La capitale italiana dei cappelli di paglia è, udite, udite, Montappone. Pensate al rischio corso da Spadaro: perché con Firenze gli sarà stato certamente facile trovare la metrica e le rime baciate, mentre la stesura di parole e musica di un ipotetico “Il cappello di paglia di Montappone” avrebbe sicuramente comportato qualche difficoltà in più.
Montappone, dunque, nelle dolci Marche, in provincia di Ascoli Piceno, poco meno di 2.000 abitanti (mica male, così piccola e già capitale) tra l’Adriatico e i monti Sibillini.
Per descriverne la storia bastano alcuni dati: sorge nell’XI secolo, nel 1050 inizia il dominio della famiglia Nobili (in pool con i Massa e i Brunforte) debellata nel 1355 da Gentile da Mogliano con la distruzione del “castello” (ricostruito 16 anni dopo ‘su licenza’ del cardinale Pietro De Stagno).
Si passa quindi allo Stato della Chiesa, ai Savoia, ai nostri giorni, con i Montapponesi sempre dediti alla coltivazione del grano, sinonimo di paglia, la cui lavorazione inizia nel Seicento.

Una storia d’amore di paglia
Ma alla freddezza dei numeri si contrapponga la tenera dolcezza che permea una campagnola leggenda locale sulla nascita del cappello di paglia.
Tantissimo tempo fa, sui colli di Montappone regnava un re saggio, rallegrato da una bellissima figlia. Raggiunta l’età di metter su famiglia, la balda principessa fu notata da un giovane contadino che ovviamente non perse tempo nel chiederla in sposa al re; dal che si evince che la pratica di “attaccare il cappello” (tacà su el capèl in mandrogno/alessandrino, braguetazo in spagnolo) ha origini antichissime.
Come sempre, i problemi nascono quando si comincia a parlare di soldi, e fu così che il re pretese in dono dal futuro genero nientemeno che una corona. Il coltivatore diretto ante litteram pianse miseria, lamentando di non possedere oro e pietre preziose per confezionare il regale copricapo. Per di più, se avesse abbandonato i campi per andare a cercare fortuna, al suo ritorno si sarebbe ritrovato con le spighe di grano, unico suo bene, pappate dagli uccelli.
Il re, la cui simpatia verso il pretendente la mano di sua figlia era inferiore soltanto alla franchezza, gli suggerì tout court di arrangiarsi, non senza aggiungere che “Ognuno è ricco per ciò che ha, non per ciò che gli bisogna”.

Nelle Marche... non la Svizzera....

Nelle Marche… non la Svizzera….

Profferita da un re, la massima poteva anche sembrare insolente, oltre che severa, ma fu di tremenda utilità per l’avvilito spasimante. Ritrovatosi nelle mani i soli gambi di tre spighe prive dei chicchi beccati dagli uccelli, il giovanotto ricordò improvvisamente quanto il futuro augusto suocero aveva sentenziato e cominciò a intrecciarli. L’operazione continuò oltre l’imbrunire, con altra paglia, per tutta la notte, e fu così che il mattino seguente il sovrano ricevette in dono una corona composta da tante trecce legate tra loro.
Solo per i distratti e gli scettici si precisi che alle nozze della figlia con il contadino montapponese il re indossava l’umile non meno che rinfrescante corona paglierina.

Manualità antica e preziosa
Archiviata la favola del campagnolo divenuto principe consorte, si passa alla realtà informando che dal giorno delle suesposte nozze gli abitanti di Montappone si misero a intrecciare paglia, forse con poche speranze di entrare a far parte di una royal family, più concretamente con l’auspicio di ricavare un gruzzoletto da tanto lavorìo delle dita.
Dopo la sbiancatura al sole (se non bastava, ci pensava l’anidrite solforosa a renderla candida), la paglia veniva bagnata (se ne evitava la sbriciolatura) e finalmente intrecciata con 4, 7 e persino 13 fili. Ultimata questa operazione contadina, ammonente che chi vive nei campi non butta via mai niente, si passava alle esperte mani della cucitrice, che oltre ai cappelli modellava anche borse, ventole per il fuoco, cestini e tanti altri oggetti che oggidì si ammirano nei sempre più numerosi musei della “civiltà contadina”.
Per descrivere la lavorazione e la confezione artigianale della paglia a un discreto livello produttivo si sono usati verbi al passato abbastanza remoto, riferendosi ai primi anni dell’Ottocento.
Già nel 1881, infatti, le dimensioni della manifattura del copricapo potevano essere definite industriali, con 2.053 specialisti e 1.951 salariati, poco meno di 4.000 addetti sui 9.355 abitanti del distretto comprendente anche Massa Fermana, Monte Vidon Corrado e Falerone.

Oggi, un piccolo-grande business

Iniziata una descrizione con una tenera favola intrisa di laboriosità contadina e puri amori, massime da meditare e corone di paglia, è tutto sommato deprimente proseguire con dati di business ed economia. Ma si ceda il passo al cosiddetto progresso, informando che oggidì a Montappone (riporta il bel dèpliant dell’Assessorato alla Cultura, intitolato Immagini, Tradizioni, Storia, Cultura) “esistono oltre 70 aziende che producono, esportano, vendono al resto del mondo ogni tipo di copricapo; una realtà di proporzioni enormi quantificabili, in ordine al fatturato annuo, intorno ai 75 milioni di Euro”. Tanta produttività ha dato vita a un Centro Internazionale del Cappello che documenta, in un intrigante Museo del Cappello, la voglia di fare tipicamente marchigiana.
A chi venisse l’uzzolo di visitare Montappone e il suo Museo, è suggerita la prima domenica d’agosto, in occasione della manifestazione della Pro Loco “Il Cappello di Paglia – dal covone al cappello rammagliato”.
L’antica tradizione della paglia di grano rivive per le vie del paese vecchio fra mestieri e giochi di campagna, musiche, stornelli ad impronta, vino cotto e cucina di un tempo.

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2 MOTTARONE, LA MONTAGNA TRA DUE LAGHI….

Laddove narro il mio pluridecennale rapporto con un ‘bel colle’ tra i laghi d’Orta e Maggiore, ricordi e vagheggiamenti, in un bel posto che vale la pena conoscere…
x mondointasca.org del 20/6/13

Paese contadino.... evviva!!!

Paese contadino…. evviva!!!

È il Mottarone, per gli sciatori della domenica, e i laghi sono il Cusio e il Verbano. Mete esotiche? Certamente, se si può. Senza trascurare i luoghi vicini che, per molti, sono anche fonte di indimenticabili ricordi

Laghi e monti
Penso proprio di aver abituato bene il cortese lettore narrandogli (forse malamente e in tal caso mi scuso) gite in posti abbastanza esotici non meno che lontani. Trasferte che – per inciso e fin che la dura – posso godere grazie a una sorta di (raramente totale, più spesso parziale) beneficenza elargitami da alberghi e altri facitori di turismo, tipo i tour operator. E tra le fonti del Ut vivere possim (per me sinonimo di viaggiare) elenco pure gli uffici del turismo (laddove però conta più “essere amici di…” che saperne di più di altri) dopodiché, per andare in giro senza svenarmi, e informare, non mi resta che ricorrere a una sorta di questua, però dignitosa. Perché ormai, a viaggiare a ufo, sono ahimè rimasti assai pochi scribi (è finita la festa: disse a fine anni 90 l’avvocato Agnelli, uno che la sapeva lunga) e tutti gli altri che un tempo solevano tirar le quattro paghe per il lesso adesso si ritrovano senza paga e senza lesso. E vabbè. Ho pertanto bene abituato (toujours perdrix), il lettore (e ne sono felice) che però potrebbe anche essersi stufato di resoconti dalle ‘solite’ Maldive o Etiopia o India (tanto per citare i posti ultimamente raggiunti).
Mete vicine e “sopraffine”!

Arona
Est modus in rebus potrebbe commentare uno dei due o tre (pochi ma sicuri, li conosco) aficionados che ogni tanto mi leggono, riferendosi alle eccessive distanze delle terre che visito e tento di narrare e quasi suggerendomi di restare un po’ più sotto al campanile, e non importa se sui laghi nostrani la marea latita e/o ad Arona non esistono ancora moschee e/o metrò. Oltretutto, poi, non ho più volte proclamato che “si viaggia, si fa turismo” anche “girato l’angolo” mediante gite brevi se non brevissime (e dimostrai il tutto raccontando trasferte financo a Pizzeghettone e Soncino). Tutto il prolisso cappello di cui sopra per informare che stavolta informo sulle mie vicende, i miei rapporti col Lago Maggiore, più precisamente quella fetta piemontese compresa nel triangolo Stresa–Mottarone–Arona.

Stresa, ricordi di infanzia

E’ passato tanto tempo ricorro a una delle battute cult di Bogart/Ricky/Casablanca da quando cominciai ad andare da quelle parti. Anzi, posso dire di esservi nato, beh no, diciamo concepito. Infatti a Stresa nel (almeno allora mitico, con l’adiacente Des Iles Borromèes) hotel Regina i miei genitori festeggiarono le nozze con successiva luna di miele. Perchè a quei tempi mica c’erano le Maldive e Stresa poteva vantare due grandi appeals turistici: recente sede (voluta dal Cav. Benito Mussolini) di un importante Meeting dei Potenti d’Europa (che allora era il mondo) la località era già celebre dopo che, secoli prima, Goethe aveva definito il percorso tra Stresa e Baveno la più bella strada del mondo.
Amori lacustri e sport montani

Isola Bella
E a Stresa vissi pure momenti di infanzia (sfollato durante la guerra) e di vitellonesca gioventù. Da Novara si partiva in Vespa nel tardo pomeriggio e nelle balère di fronte all’Isola Bella e a quella dei Pescatori si apriva una Caccia alla Straniera che in caso di successo si concludeva con un allegro infrattamento su qualche spiaggetta o nell’alveo del torrente sfociante nel Lago Maggiore. Talvolta, ma raramente (non eravamo romantici), l’amore proseguiva (fino a fine ferie della malcapitata), in tal caso portavo in camporella la neo-morosa (a una svizzera di Aarau piaceva moltissimo) vicino ad Arona nel boschetto sotto l’enorme Statua del San Carlone (farvi un salto, non al boschetto della camporella bensì alla Statua, non un gran- ché però enorme). Nel triangolo Stresa–Mottarone–Arona ebbi poi modo di dare il meglio di me come sportivo. A Lesa, in un bel Club che tuttora fa bella mostra, giocai alcuni matches di Tennis (ma se è per questo andai financo in tournè/esibizione, vabbè, da Novara, fino a Gozzano, ma siamo sul Lago d’Orta). Mentre al Mottarone iniziò (e subito finì) la mia carriera di sciatore: giuntovi sulla cima in gita scolastica e legati agli scarponi (a quei tempi c’erano stringhe lacci e quant’altro) un paio di sci (chissà quanto spese mio padre, un basìn) dopo una ventina di metri di slalom uno sci si staccò e giù giù finì nel Lago Maggiore.

Gemme di Lago

Scherzi (e miei ricordi di vita) a parte chi non conosce (bene) quella fetta di Lago Maggiore vi faccia un salto. Ma attenti: vi si arriva gratis dal Lago d’Orta, mentre da Stresa si paga, datosi che, tra proprietà e antichi diritti feudali, i Borromeo sono tutt’oggi quasi padroni del Lago Maggiore ed esistendo tra Stresa e il Mottarone un loro Parco non so se vero o farlocco eccoli cuccare il pedaggio. E se becca una bella giornata tersa, limpida, dal Mottarone (1400 metri) se ne vede delle belle, anzi bellissime. Ben sette laghi si fanno ammirare, eppoi la catena delle Alpi (davvero) a portata di mano. Altre bellezze da ammirare e/o godere in zona? L’Alpino, un civettuolo Golf (uno dei primi o il primo d’Italia, solo 9 buche ma che bello!). E nel Vergante, due chicche: i pochi ma begli esempi di architettura (tra i quali una pregevole chiesa romanica) a Brovello Carpugnino e Massino Visconti. Mica si può sempre andare alle Maldive…

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3 PIZZIGHETTONE

Si fa turismo anche viaggiando in tram o andando ‘fuori porta’
x mondointasca.org

Pizzighettone: uno “speciale” inviato tra storia, arte e buona cucina
Chiedo anticipatamente un doppio perdono al cortese lettore. In primo luogo perché torno su un argomento che mi sta particolarmente a cuore. In secondo luogo perché sull’argomento stesso mi dilungo (oserei dire) in termini quasi accademici, con distinguo e chiose da far invidia al baroccheggiante Giambattista Marino. Eccomi quindi a parlare di Turismo. E a esternare che la parola Turismo contiene tanti significati, concetti, accezioni, espressioni. Turismo, ad esempio, è

Milano, Brera

Milano, Brera

una manifestazione di intelligenza. Uno viaggia perché è curioso, vuole vedere, e siccome considero la curiosità sinonimo di intelligenza, ecco dimostrata la mia teoria. Sono invece meno d’accordo sulla possibilità che il Turismo possa essere anche un concetto di distanza, più brutalmente una “espressione chilometrica”.

Abbazia di Viboldone
A mio modesto parere si fa (e si descrive) turismo anche partendo dal milanese Corso di Porta Romana e andando a visitare le vicinissime, non meno che magnifiche, abbazie di Chiaravalle e Viboldone. In un’altra occasione, sono passati alcuni anni, il medesimo scrivente ha compiuto un indimenticabile viaggio a Lodi (da Milano, in senso inverso alla Canzone del Bavero Zafferano): accompagnato un amico notaio per una commissione, seguì una bella visita a case castello palazzi e chiese, un bitter shakerato con abilità, piaceri gastronomici e shopping finale del gustoso cacio raspatura.

Invitato al Lions di Paullo per tenervi una conferenza sul Turismo, generai un iniziale sbandamento e sconforto (si attendevano prolusioni accademiche sull’Antartide) commentando una mia intrigante visita notturna organizzata e narrata dal mio amico Paolo Moschini tra i misteri di Bergamo Alta. La disquisizione terminò tra sinceri applausi. Si finisca pertanto di credere che “fare turismo” sia sinonimo di grandi fughe nello spazio, di “andare più lontano” (ma ci credono ancora in molti, si pensi ai tanti che si sparapanzano in spiaggia alle Maldive e non sono mai stati nella romana Piazza San Pietro, o a chi usa la cartolina postale come una clava umiliando il vicino di casa con la dimostrazione che “è stato fin là” – ma dov’è?, si chiede ammirato il vicino touchè -). A dimostrazione che credo fermamente in quanto sopra esposto, segnalo che fino a ieri l’altro pensavo di dedicare queste righe alla descrizione di una gita compiuta alle Vanuatu, ex Nuove Ebridi, Melanesia, Oceano Pacifico. Sennonché, convinti ieri mattina i mè amìs Paolo e Vittoria ad affrontare un viaggio a Pizzighettone, eccomi qui, per la ferrea legge dell’Ubi Major minor cessat, a narrare una trasferta dalla piacevolezza e dagli entusiasmi inversamente proporzionali alla sua brevità. E non scherzo.

Bellezze anche dietro l’angolo di casa
Pizzighettone (provincia di Cremona, poco meno di 7000 abitanti, 16 metri s.l.m.) è raggiungibile da Milano (circa 62 km) guidando per una ventina di minuti sull’Autosole (uscita Casalpusterengo) dopodiché si attraversa una congerie di centri commerciali mascheranti i panorami di Codogno e Maleo. Gli ultimi 4 o 5 kilometri di Terra di Nessuno (totale assenza di Megasùk al nèon) ti fanno sperare che (finalmente) arrivi in un posto diverso. E così è. Pizzighettone è davvero un posto diverso (carico di Storia, tanta e in più quella che conta) e pure fortunato (perché chi lo abita e lo gestisce ha saputo mantenervi un aspetto civile, non permettendo i citati Consumismifìci e valorizzando quel che le vicende umane avevano lasciato). Le prove di tanta nobiltà istorica? A parte l’intrigante toponimo (Forum o Pizus Juguntorum o Diuguntorum, da cui l’attuale nome, invero sì curioso da finire preso in giro nella canzoncina “Al mercato di Pizzighettone”, Quartetto Cetra, anni ’60), basti informare che in questo strategico punto sulle rive dell’Adda fissarono stabile dimora (e fruttifero porto commerciale): etruschi (con il nome Acerra, oggi il Borgo Gera), romani, Cremonesi, i milanesi Visconti (a quei tempi era chiamata Piceleo), francesi, spagnoli, austriaci, fino ai Savoia poi trasformati nell’odierna Repubblica Italiana.

C’è molto da vedere, conoscere e apprezzare
Questa full immersion nel passato trova riscontri visivi in una magnifica cinta di mura, così munita (al fossato difensivo provvedeva l’Adda) e possente da potersi definire il borgo difeso una Terra Separata (così importante da essere assegnata alla amministrazione diretta dalla Cancelleria di Francesco Sforza, duca di Milano). E a “valere il viaggio”, come si dice, sono le mura, che contengono più di quanto circondano: il palazzo comunale dal porticato di archi gotici in cotto; la chiesa di San Bassiano, XII secolo ma ahinoi troppo ritoccata, bello comunque il rosone; il Torrione, ultimo avanzo della Rocca, castello demolito ai primi dell’’800, che ospitò Francesco I catturato durante la battaglia di Pavia, 1525). Si tratta di un baluardo sapientemente ristrutturato e reso visitabile con lavori eseguiti nel rispetto del contesto storico, un grosso esempio di architettura militare iniziato sommariamente nel 1133, migliorato con i Visconti, 1370, reso imprendibile dagli Spagnoli (1585, disegni del bolognese Pellegrino Pellegrini) e ulteriormente perfezionato dagli Austriaci sotto Carlo VI d’Absburgo.

All’interno delle mura, arricchite da un mirabile Rivellino, si trova un museo delle prigioni, ex Ergastolo (1785, servì anche da carcere della nostra Repubblica, fino al 1954) ma l’attenzione va rivolta soprattutto alle case matte, intercomunicanti, con soffitti di mattoni a volta, adibite ai più svariati usi militari. Sulla sponda destra dell’Adda la borgata di Gera riserva altre sorprese: la cinta muraria ‘casa mattata’, una minipolveriera, case di una certa eleganza campagnola tra stradine dove il tempo si è fermato. Per non parlare della chiesa di San Pietro, divenuta santuario mariano nel 1956, dalla facciata così ripiena di mosaici da far pensare di ritrovarsi al cospetto di un luogo di culto bizantino. Quando mai una località bella e intrigante non ha vantato un piatto tipico, una specialità che – dopo l’appagamento dello spirito – provveda a quello dello stomaco? Tra le mura di Pizzighettone si va al sodo non meno che sapido, mediante i Fasulìn de l’oc cun le cudeghe (Fagiolini all’occhio con le cotenne), un must alla ricorrenza dei Mort o comunque in caso di clima non mite, dalla semplicità che non rende obbligatoria l’elencazione della ricetta.

Più incline a specialità cremonesi più digeribili delle cotenne, l’autore del viaggio ormai giunto all’epilogo ha fatto centro pranzando alla Trattoria del Guado, menu degustazione a prezzo fisso, 19 euro e 50, comprendente: raspadura e involtino allo speck, un primo di cappelletti asciutti e uno di tortelli di zucca, bollito misto, dolce al zabaione, acqua, una bottiglia di vino, caffè e digestivo.

 

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4 TRA GLI AGRITURISMO DEGLI ETRUSCHI 

Si conclude la gita ”Ben andato al centrosud” assistendo a un Forum degli Agriturismo celebrato tra visite ai resti della civiltà etrusca e piacevoli vicende gastronomiche nell’opimo territorio
gpb x mondointasca.org del 4/1/13

Ferrara, palazzo dediamanti

Ferrara, palazzo dediamanti

Fine del viaggio tra le meraviglie storiche di quella fetta d’Italia che conserva le vestigia di un antico quanto misterioso popolo. Che ora, 21mo secolo, coniuga l’ospitalità degli Agriturismo e il ricordo degli Etruschi

Riassunto delle puntate precedenti
16-19 novembre – Giunto nel Cilento lo scriba – non senza ammirare sardanapaleschi residences per bufale e degustare caciocavalli podolici – si aggira alla Borsa del Turismo della Nocciola (concelebrata a Paestum con l’omologa del Turismo Archeologico e festeggiata con coriliche – da corylus avellana, la nocciola in latino – degustazioni nella Sieti di Giustino Fortunato); dopodiché (sempre lo scriba) compie una intelligente visita alla Certosa di Padula indi (via Roma, raggiunta mediante un Intercity mica tanto pulito, non parliamo poi dei cessi) risale lo Stivale recandosi a Tarquinia a un Forum (il X) dell?Agriturismo sapientemente organizzato da Skal (quella originalmente vikinga associazione di grandi viaggiatori i cui soci ogni tanto si alzano in piedi, urlano la ragione sociale e alla fine dell’agape si ritrovano beatamente ciucchi come la giustizia, e ciò, credetemi, vuole già dire molto).

 

20 novembre – Intanto comincio (ma sarò breve) con una doverosa assistenza culturale su Tarquinia e quel che c’è intorno (info elargite non per presunta ignoranza del lettore bensì per il rattristante motivo che nel Belpaese geografia e storia sono, stupidamente, ritenute discipline di serie B, col risultato che un viaggiatore che non sa dov’è va paragonato a una macchina fotografica che non ha la messa a fuoco, e se il turista va in giro senza Nikon o Canon si pensi a una visita da lui compiuta nella nebbia).

Tarquinia, Patrimonio Unesco (tanto per capirci) fu sito abitato già all’Età del Bronzo (XII secolo a.c.) e fu etrusca (Tarkna o Tarchuna) dall’VIII al II secolo a.c. (apogeo con Roma in fieri). A dar retta a Erodoto (probabilmente il più informato per motivi cronologici) gli Etruschi (“ben fatti, atletici e sessualmente attivi” precisano – ma forse solo per sentito dire – Anna Alfieri e Carla Valdi nel volumetto “Gli Etruschi e l’Eros”), arrivarono dall’oriente; non è dello stesso parere Dionigi di Alicarnasso (vissuto però un po’ di secoli dopo Erodoto) che ritiene gli Etruschi autoctoni doc; secondo Tito Livio provenivano addirittura dal nord, dopodiché gli storici moderni misero d’accordo tutti i suesposti saggi commentando che potevano andar bene tutte le tre antiche teorie.

Etruschi, un popolo dalle molte leggende
Chi invece romanticamente crede al mito, sa che Tarquinia fu fondata da Tarconte, figlio di Telefo re della Misia (dalle parti di Troia, città da lui protetta perché Dio della Tempesta) e fratello di Tirreno (col quale, ‘lo dice’ la leggenda, organizzò un viaggio di sola andata del suo popolo trasferendolo, appunto, nella futura Etruria).

Circa 300 anni a.c. gli Etruschi finirono poi sotto i Romani (che vivaddio usavano un alfabeto molto meno ostico degli assoggettati, talché se al liceo avessi dovuto studiare coi quasi geroglifici etruschi sarei persino passato a ragioneria). E dopo i Romani e un po’ di barbari ecco (poveri ex Etruschi, con tutto il rispetto) la Chiesa; fin quando da Tarquinia – il 23 ottobre 1875 – passò pure Garibaldi e infine (non c’è mai limite al peggio) i Savoia. E quanto alla geografia, dai citati dati storici si evince che il territorio etrusco da me visitato spazia lungo la costa tirrenica dal nord del Lazio al sud della Toscana (leggasi Maremma) inoltrandosi all’interno fino alla (verde, lo dicon tutti, e mi associo) Umbria.

Agriturismi per tutti i gus
Ma veniamo al X Forum Nazionale dell’Agriturismo. Anzi no. Datosi che questi incontri o assemblee o assise altro non sono che i soliti meetings in cui ci si parla addosso, preferisco narrare gli Agriturismi. Beninteso quelli (marchette, si, ma un filino di professionalità non guasta mai) che gli inciucanti Skal hanno portato ad ammirare, e ovunque, pare ovvio,libando nei lieti calici (mica quelle puritane spot inspections per anni da me sopportate in tanti hotels degli States, grazie alle quali, però, mediante scaltrezza nell?appropriazione indebita esercitata nell’inspection dei cessi, ho tirato su un’invidiabile collezione di saponcini).
Ma prima di passare alla narrazione agli Agriturismi spottati, preciso per onestà che non conoscevo a fondo questa realtà dell’incoming del Belpaese (ho un bel da scrivere che si viaggia anche spingendosi da Milano alla vicinissima Pizzighettone ma poi, e non sono l’unico, considero viaggio solo una trasferta a più di 10 ore di volo eppertanto snobbo talvolta belle mète viaggiatorie nazionali solo perché troppo vicine). Va però anche precisato che (da quel che ho visto) queste strutture non canonicamente alberghiere oltre che tante sono anche, e soprattutto, assai diverse tra loro, talché chi deve viaggiare si ritrova un filino incapace di scegliere (manca, ad esempio, una guida, o quel che l’è, che informi e proponga itinerari omogenei tra Agriturismi capaci di fornire servizi, passatempi e piaceri ben precisi e organizzati, tipo cucina a disposizione, menu ben chiari e dettagliati.

Gemme d’accoglienza
Chi va al Bioresort Parco dei Cimini (a due passi il verde del monte che dà nome alla riserva) oltre a très bon confort e ampia scelta tra sport e scienza (Centro Astronomico, quindi aria pura sennò le stelle come le vedi? e pure vari laboratori didattici) si inoltra tra i boschi ma ha la certezza di non perdersi (coordinate gps navigatori: 42° 23′ Nord ? 12° 11′ Est, scrive nel dèpliant il baldo patron ex condottiero paracadutista).

Vieppiù chic il Valle del Marta a Tarquinia, leggasi che più che con la famiglia e/o gli amici sarebbe saggio finirvi con una morosa (ciao pepp!), eppoi rilassarsi nel Centro Benessere o visitare la necropoli etrusca (la cui descrizione lascio ai circa 90 opuscoli su Tarquinia venuti in mio possesso, salvo però suggerire al visitatore una lunga sosta davanti alTuffatore (nella Tomba che da Lui prende nome).

Acquapendente, agriturismo locale indipendente con cucina

In un punto del nord Lazio viterbese (per la precisione ad Acquapendente) che – se ho ben capito – più equidistante da Toscana e Umbria non si può, c’è poi Il Tesoro, un Agriturismo con charme, ‘lo dice’ il bel e multifotografico dèpliantredatto da Rita Favero, entusiastica non meno che attivissima Madamìntuttofacente. Ho usato un termine tipico del a me caro Vej Piemont datosi che (basta il cognome) gli ascendenti di Rita Favero giunsero da queste parti dalla provincia Granda (leggasi Cuneo e dintorni). Ma ormai il Genius Loci ha prevalso e – tra belle costruzioni rustiche doc, prati relax e piscina – c’è un ristorante/cucina in cui la mamma di Rita ha ammannito Pici al Farro, Cappone ripieno e Coniglio in Porchetta. E mi dica il cortese lettore se è poco.

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5 Il Professo Viaggiatore….. nel Salento

antica mappa del Salento

antica mappa del Salento

Nel paese delle meraviglie per arte e cultura…. posto nel Salento centrale, Galatina è un comune della provincia di Lecce che raccoglie innumerevoli meraviglie storiche come la basilica, romanico-gotica, di Santa Caterina d’Alessandria. Tante bellezze sconosciute al mondo e agli italiani che meriterebbero un’adeguata promozione….

Giunta alla 4a puntata (roba da Via col Vento) la narrazione della Gita per scrittori turistici nel Salento, quindi superato il segnale di guardia, mi affretto a spiegare che questo eccesso di grafomania non è dovuto a mie prolissità bensì alla estrema densità del programma architettato dalla già abbondantemente lodata Carmen, che ci ha portato in posti ben più meritevoli delle solite due righe. Mica facile glissare, non narrare che mi sono risultate assai belle le Marine nel comune di Melendugno e che non vivendosi di solo pane mi è pure toccato gustare tante buone orecchiette strascicate e gaudiose bottiglie di Negroamaro. Ma soprattutto provate voi a contarla su succintamente, a contenere gli spazi descrittivi dopo un’escursione virgiliana nelle Grotte di Castellana e/o, un’altra più ariosa tra i Trulli di Alberobello. Ripeto, mica facile.
E parimenti temo ahimè di sforare la pazienza del lettore (sempre che abbia di meglio da fare e non finisca davanti alle tivù generaliste) nel prosieguo di questo umile reportage laddove tento di spiegare perché mi sono (davvero) piaciute tante altre chicche turistiche del Salento. Mi riferisco a Galatina, Nardò, la costa del Canale d’Otranto e Castro. Oltre, beninteso, last but not least (così dicono i bravi scrivani di turismo) la barocca capitale, Lecce, che – non me ne vogliano i baresi – è per me la città più importante delle Puglie, soprattutto per arte e cultura. Eppoi c’è anche la messapica Cavallino, che fortunatamente è località turistica (davvero) ben meritevole di una visita – castello e chiesa Madre – sennò avrei dovuto comunque elogiarla imperocché a Cavallino la Musa Carmen medita e progetta le gite per noi gazzettieri.

Pasticciotto Show
Ed entro in cronaca diretta informando che a Galatina mi sono: 1) “Culturalmente intrigato”; 2) “Palatalmente divertito”; 3) “Turisticamente incazzato”.
E mi spiego. “Cultura”: curiosa la vicenda della tarantola, Lycosa Tarantula così chiamata da fine ‘400 dalle parti (di qui il nome) di Taranto, un ragno abbastanza innocuo (il morso ti fa solo zompare, e balli la Tarantella, figlia del Tarantismo, tutto spiegato nella Cappella di San Paolo) mentre in aree più selvagge del mondo consimili pelose aracnidi producono danni peggiori (ma per gli indigeni di Brasile, Cambogia e Venezuela costituiscono pure una leccornia).
“Divertimento palatale”: in un bar (con una cameriera di cui mi sono innamorato d’amblè, ay ay ay quando mai fu invitata alla gita pure la mia sposa …) fianco alla Chiesa Matrice un Pasticciotto Show voluto dalla Musa Carmen mi ha permesso di conoscere questo dolce che (mi han detto) più salentino non si può. Buono.
Monumento nazionale

Chiesa di Santa Caterina – Affreschi della terza campata – Storie del Nuovo Testamento
“Incazzatura turistica”: sopravvenuta durante e dopo la visita della romanico – gotica basilica di Santa Caterina d’Alessandria, dichiarata monumento nazionale nel 1870. Una meraviglia storica: Raimondello Orsini del Balzo, il principato di Taranto, la principessa Maria d’Enghien, le Crociate….quante vicende non solo cittadine all’interno di questa basilica alias Leggenda Aurea di Galatina. Ma Santa Caterina costituisce soprattutto una meraviglia artistica, quelle cinque navate affrescate, e pensi a Giotto, agli inizi della gloriosa pittura che fiorì nell’Italia Felix del Rinascimento. Ahhh l’”incazzatura turistica”, ça va sans dire vitupera chi dovrebbe (o almeno tentare di) promuovere, operare, gestire, il Turismo nel Belpaese e conduce a una domanda. Premesso che tanti se non tantissimi potenziali turisti (belpaseani, non parliamo, poi, stranieri) poco o niente sanno dell’eccelsa Santa Caterina di Alessandria a Galatina (e parimenti poco o niente sanno di tanti altri eccelsi monumenti e/o località cosiddette minori ‘sparse’ nel Belpaese: qualche esempio tra mille? Sabbioneta, la Certosa di San Lorenzo a Padula, Montecarlo nella Lucchesia, Este etc etc etc…), ciò premesso, mi chiedo perché mai gli Addetti ai Lavori Turistici Ltaliani (in primis l’Enit, ma chi è/era costui?) l’hanno sempre, e solo, menata facendo la rèclame sempre e solo a Roma, Venezia e Firenze, città già arcinote in tutto il mondo? Perché mai, dunque, invece delle solite ripetitive menate (i tiggì a ferragosto: “vaporetti affollati sul Canal Grande” –e ce credo…-) ricordanti le solite città che mai hanno avuto bisogno di “pubblicità” (ancora un po’ e a Venezia entreranno solo tot turisti -beninteso a pagamento- andata e sosta di mezzora in piazza San Marco) non si parla, quasi mai, di chicche turistiche quantomeno nuove?
E vabbè, ubi maior minor cessat, ma Santa Caterina di Alessandria a Galatina è davvero bellissima, anzi (come garantiva un cartellone sull’autostrada Torino – Milano reclamizzante un ristorante, antàn c’erano pure quelli, poi li hanno tolti perché distraevano) vale il viaggio…
(x mondointasca.org 30/04/2015)