GASTRONOMIA … PAELLA GAZPACHO E SANGRIA ….
Le tre parole più comuni della Cucina spagnola … umile (ma anche utile) minitrattato per chi va in Spagna (o provvede a casa sua o più semplicemente vuole solo saperne di più)
per mondointasca.org del 31/12/2009
Guida essenziale per i palati in partenza per la Spagna ma anche per chi resta a casa e vuole provare i sapori di questa terra. Eccezionale dono di Fine Anno per i lettori di questo affamato Gossip!
La Paella è la più nota delle tre più tipiche espressioni della cucina popolare e tradizionale a sud dei Pirenei: le altre due sono la Sangrìa e il Gazpacho, veri e propri ‘sinonimi gastronomici’ di Spagna. E prima di spiegare cos’è la Paella, se ne pronunci acconciamente il nome: non va bene Paella, come si legge in italiano, è invece giusto dire Paèglia (con accento sulla ‘e’). La sola traduzione di Paella nell’italiano Padella spiega le origini di questo mangiare tanto umile (almeno antàn) quanto (divenuto) famoso. Un tempo, nelle case spagnole non ricche (e ce ne furono tante, e per tanto tempo) venuta l’ora di dar da mangiare, la ‘ama’, madre di famiglia, metteva sul fuoco la Paella (appunto la padella) scaldandovi il non costoso riso (coltivato soprattutto nel Levante, vicino a Valencia, da cui la Paella a la Valenciana) dopodiché (per dare maggior sapore e sostanza) vi aggiungeva quel che trovava e/o restava nella dispensa. Ecco “cos’era” la Paella: un mangiare semplice e senza ricetta. Cos’era, infatti, perché con l’aumento del benessere (e dei charter turistici) la Paella è divenuto un piatto con tanto di ricetta canonica, ferree e non sgarrabili dosature, ingredienti ben definiti (meglio se cari e raffinati). Ovvio quindi che abbiano assunto sempre minor importanza la Paella di Verdure (roba da morti di fame); poco valga – e invece è buonissima – anche la Paella di Carne (pollo, coniglio e quel che c’è) mentre il ‘massimo’ (ti pareva) anzi ‘l’unico’ è costituito dalla Paella di Pesce (beninteso con Mariscos, frutti di mare, guai poi se non ‘ci sono dentro’ le Cigàlas, scamponi, la Langosta, aragosta, e il Bogavante, astice: sennò che Paella sarebbe mai?).
Gazpacho, umili origini ma grandi sapori
Il Gazpacho, come la Paella e la Sangrìa, ha origini umili e popolari e la sua preparazione è molto semplice. Perché, almeno originariamente – come per Paella si intende semplicemente del riso cotto con quanto si trovava nella credenza (ghiacciaia e freezer? ma mi faccia il piacere!) e la Sangrìa altro non è che il vino che resta, insaporito dai resti della frutta e magari pure un liquorino se presente – il Gazpacho è sinonimo di una modesta minestra (un passato) di verdure crude.
Ma che sapori, quanti profumi percorrono il palato! E datosi che verdure, sapori e profumi, nascono, fioriscono e decorano le terre del sud, il Gazpacho non può che essere ‘Andaluz’ (salvo una peraltro poco nota versione ‘extremeña’ differente soltanto per il pomodoro a pezzetti). Un alimento tipicamente Andaluso, quindi, l’ideale per il contadino che trascorreva ore a non finire lavorando nei campi del latifondo, sotto lo stesso sole che a Torremolinos arrostisce le bianche pelli delle turiste dello Yorkshire, bisognoso di non imbarazzare lo stomaco mediante l’ingestione di un liquido ricco di vitamine e sali minerali, meglio ancora se rinfrescante. Come appunto il Gazpacho (oltretutto comodo da trasportare e facilmente sistemabile al fresco – i campesinos lo infilavano sottoterra – grazie ai tipici recipienti di coccio.
Tortilla con patatas
Una minestra di verdure che un tempo (ante frullatore) venivano faticosamente ‘passate’ a mano (l’antico setaccio è finito ormai appeso sui muri delle cucine rustiche) mediante il sudato ‘olio di gomito’. Meglio però, per il Gazpacho, l’olio d’oliva (beninteso Extravergine, andalusissimo prodotto, la provincia di Jaèn ne è la più grande produttrice nel mondo). Ingrediente ‘base’ cui vanno aggiunti: pane ammollato, pomodori molto rossi e maturi, cetrioli, peperoni, cipolle, aglio, sale e un pochino di acqua e aceto. Ma concediamo almeno alla cucina povera la libertà di non finire prigioniera di quelle rigorose ‘ricette’ che tante ‘signore bene’ declamano proprio quando – parlando di Spagna – il discorso finisce su Paella, Sangrìa e Gazpacho. In quest’ultimo, ad esempio, anche la carota e un filino di basilico ci stanno bene.
Sangrìa
Un “classico” del mangiare e bere a sud dei Pirenei, popolare, tipico e noto quanto gli altrettanto celebri Gazpacho e Paella è la Sangrìa: in una ideale classifica della “Spagna a Tavola” seguono la Tortilla-frittata de Patatas e il Churro – frittelle a bastoncino di farina e acqua – ma la prima è stranamente snobbata dagli italiani viaggianti a sud dei Pirenei, mentre il Churro – che, ‘pucciato’ nella cioccolata, apre la giornata di uno spagnolo all’antica – non gode di tanta notorietà all’estero e nella stessa Spagna è sempre meno popolare, assediato dalle merendine).
Chi scrive ricorda la sorpresa, per non dire il ribrezzo, provato tanto tempo fa in un negozio di souvenir nella Costa del Sol, alla vista di un asciugamano da spiaggia riportante una canonica ‘ricetta’ della Sangrìa. Trattavasi, né più né meno, quanto a ingredienti, di una sorta di rigoroso “diktat” impensabile financo in una Bibbia dei Cocktails. Acquistato l’asciugamano e memorizzata la ‘ricetta’, tanta violazione del buon senso, del buon gusto e della dignitosa umiltà dell’alimentazione popolare sarebbe poi stata perpetrata dalla turista ritornata nel Belpaese, mediante elencazione di ciò che occorre per la Sangrìa (pura demenza: chi dice Cointreau o altri strani liquori, altri citano improbabili spezie esotiche e la signora che sa tutto può financo comprendere raffinati zuccheri di canna purché introvabili e costosi).
Andalusia, vino Manzanilla e corse dei cavalli a Sanlucar de Barrameda
Povera Sangrìa: un bere trovatello non essendo noto neppure il suo luogo di nascita. Si parla dell’Andalusia ma è forse più bella la storia degli Albañiles, muratori, di Madrid. I quali, giunta la ‘pausa pranzo’, tiravano fuori quella che i loro omologhi ‘magut’ milanesi chiamavano ‘la schiscèta’ (gamella-gavetta) portata da casa, e a snack ultimato ‘mettevano insieme’, versavano il vino rimasto in una brocca dopodiché vi aggiungevano (è poco chic dire ‘vi buttavano dentro’?) gli avanzi della frutta mangiata e quant’altro poteva provenire dalla visita al bar per il caffè (zucchero, il liquore usato per la ‘correzione’, due dita di gazzosa e pure un po’ di ghiaccio regalato dal barista). Eccola qui, dunque la (vera) ‘ricetta’ della Sangrìa. Che ciascuno è libero di preparare come meglio crede (senza dover acquistare asciugamani da spiaggia che della Sangrìa ne riportano i canoni).
P.S. e N.B. – La Sangrìa non ha comunque nulla a che vedere con l’altrettanto rinfrescante Tinto (vino rosso) de Verano (estate) laddove in questo caso trattasi di vino battezzato con la Gazzosa (meglio se della marca più nota e popolare, la Casera).
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