SETTANT’ANNI FILATI ”LISCI COME L’OLIO” (che è meglio del burro?….. o ….)

bonomi guida Ristoranti SpagnoliTradendo il burro padano per la spremuta della benefica ”aceituna” andalusa…
GPB … da www.mondointasca.org 8/3/2007

Settant’anni filati “lisci come l’olio”
Nella mia ormai trentacinquenne milizia giornalistica, oltre a dichiararmi (immodestamente) “esperto di turismo”, ho pure la sfrontatezza di proclamarmi (ancor più immodestamente) discreto conoscitore dell’enogastronomia.
E non mi fermo alla buona tavola del Belpaese. Penso pure di poter vantare, con estrema iattanza, anche buone cognizioni del “mangiare e bere” in Spagna. Se così non fosse, non avrei potuto scrivere un minidizionario gastronomico “italiano-spagnolo-italiano”, oltretutto valutato il giusto perché pratico e utile.
A ciò si aggiunga un minuzioso minitrattato sul “Jamòn de Pata Negra” (fantastico prosciutto iberico). Come se ciò non bastasse, non avrei avuto la pazienza di redigere una “miniGuida” segnalante più di cinquecento “posti dove mangiare in Spagna: ristoranti, bares de tapas, mesones, bodegones” da me visitati nel tempo.

Toccando “ferro”…
Considerato che cinquecento punti dove sfamarsi sono davvero tanti, commenterei che ho raggiunto questo minirecord “en solitario” grazie alla perseveranza, al piacere della curiosità e soprattutto alle capacità resistenziali dell’apparato digestivo, alias la salute.
Già. Un evviva alla salute e alla sua importanza, soprattutto se perdurante in un contesto coinvolgente il disordinato universo dei viaggi e le ancor più sregolate vicende dell’alimentazione (bravissimi dietologi di sé stessi, ad esempio, gli ispettori della Guida Michelin, professionalmente obbligati a mangiare una sola volta al giorno: ma quanto!). E di buona salute ne godo invero abbastanza e ancor prima di dichiararlo provvedo a toccare ferro, lasciando a spagnoli e anglosassoni la preferenza per il legno, “madera” o “wood” che sia, con il risultato che nel mondo tutti palpano scaramanticamente qualcosa, non si sa mai.
Buona salute dovuta a che cosa (oltre che al Fato quando non Fortuna)?
Mah, francamente non ne conosco i motivi, non saprei davvero chi o che cosa ringraziare. O meglio, un’idea, un sospetto lo coltivo da tempo e lo rendo pubblico. Forse forse, il non stare poi così male alla mia veneranda età (70 suonati) potrebbe essere merito di una alimentazione che mi ha visto privilegiare l’olio.

Dai patri lombi, l’olio come “amore”
E dire che il mio approccio all’olio non è stato dei più facili, per svariati motivi che definirei etnici, geografici, financo politici, nonché fisiologici ed economici.

Sono infatti venuto al mondo nel nord dell’Italia da un romagnolo e una piemontese. Ma mentre per il padre lughese il prezioso derivato dell’oliva poteva anche rappresentare qualcosa di non sconosciuto (tanti gli uliveti sulle colline tosco-emiliane, versante padano di quegli Appennini che costituiscono lo spartiacque gastronomico tra il Settentrione cucinante con il burro e il centro-sud del Belpaese nelle cui cucine impera l’olio), per la madre Vej Piemont era considerato un commestibile quasi misterioso.

Lisbona, la Cervejaria Trinidade

Lisbona, la Cervejaria Trinidade

Mi riferisco, attenzione, all’olio di oliva originale, quello che oggi definiamo vergine o extra vergine e durante la guerra era venduto alla borsanera come “olio-olio”, parimenti al vero caffè (non un surrogato composto d’orzo o quant’altro similare proveniente dalle nostre colonie ormai già ex) che al mercato nero si chiamava “caffè- caffè”. Perché l’olio non poteva mancare nemmeno sulle tavole del Nord (si pensi solo al condimento dell’insalata) ma si trattava di un olio che (se rapportato a quello venduto oggidì) con le olive non aveva proprio nulla da spartire, provenendo da semi tipo il girasole o – ricordo, chissà se questa pianta esiste ancora, ancorché sotto altro nome – il ravizzone.

Al Nord, “battaglia” fra olio e burro
E non è che i Nordisti italici disdegnassero l’olio per preconcetto o per motivi campanilistici o economici. No, è che in molti casi (ad esempio la “componente piemontese” della mia famiglia, con la zia che condiva la “sua” insalata con un che dall’aspetto molto acquoso) l’ “olio-olio” risultava eccessivamente pesante, stranamente (per stomaci che divoravano financo salami affondati nel grasso e la pesante “cassoela” longobarda) poco digeribile.
Beninteso, questa sorta di “oliofobia nordica” non escludeva l’esistenza dell’ulivo nell’Italia padana e subalpina (né di alcuni piatti a base di olio, si pensi alla “Bagna Caoda”, il cui condimento era commerciato con l’altro ingrediente, le acciughe, dagli “anciuàt” provenienti dalla vicina Liguria).
Non solo: proprio nel nord del Belpaese l’ulivo ha conseguito il lusinghiero record mondiale della coltivazione alla più alta latitudine. Un tempo detenuto (o quantomeno vantato) da Arco (nel Trentino, pochi chilometri a nord del lago di Garda) il primato si è trasferito nel Friuli Venezia Giulia.

Elegia dell’olio in etichetta

Moleche. Adriatico - Venezia, rare (solo in stagione) quindi (giustamente) care...

Moleche. Adriatico – Venezia, rare (solo in stagione) quindi (giustamente) care…

Già presente ai tempi dei Romani (Friuli, da Forum Iulii, di Giulio Cesare), abbandonata nei secoli bui, rilanciata dall’imperatrice Maria Teresa (mediante un contributo di due fiorini per ogni pianta interrata) e poi nuovamente dimenticata, la coltivazione dell’ulivo è stata recentemente ripresa nelle terre del Collio dal conte Formentini (una cui ava portò in dote il Tokaji a un nobile sposo ungherese).
Ulivo pertanto non totalmente sconosciuto nel nord Italia, ma dalla coltivazione circoscritta a piccole zone (lago di Garda, il citato Appennino) per una produzione di olio che si potrebbe sportivamente definire dilettantistica, familiare, raramente “industriale” (e comunque di modeste dimensioni). Considerati poi tutti i costi della manodopera e la scarsa redditività del frutto, ne deriva che produrre olio a livello “casareccio” è sinonimo di un lusso che molti non si possono permettere (tanto per fare due conti, un litro di olio imbottigliato – con una resa media di olive del 15% da una pianta adulta e da circa quindici chili di frutto – al piccolo produttore “famigliare”, costa non meno di 20 euro).
Ma la passione (e la certezza di degustare una cosa buona) è tanta e non inferiore al timore che quanto venduto al supermarket a prezzi di molto inferiori possa essere prodotto più dalla chimica che dalla Natura. Una passione non disgiunta da poetico entusiasmo, a giudicare da quanto scrive un amico medico – possidente di un fazzoletto di terra avita sul Garda – sull’etichetta dell’ “olio di famiglia”: “Praticamente miracoloso, splendido per condire, aromatizzare, insaporire, cucinare, rosolare, soffriggere, ottimo da assaporare, degustare, centellinare. Gli si riconoscono virtù tonificanti, terapeutiche, medicamentose, lubrificanti, officinali e cosmetiche. Si dice che seduca con doti di magia e sortilegio; susciti incanto, estasi, malìa e meraviglia dei sensi. Fidando nelle sue qualità prodigiose, in esso si ripongono l’augurio e la bieca speranza che possa essere anche stimolante afrodisiaco”.

Un’altra “battaglia”: fra Italia e Spagna

Bacalhau

Bacalhau

E la mia (benefica) “aficiòn” all’olio? Beh, nacque col tempo, legata alle mie vicende professionali. Ritrovatomi a viaggiare sempre più sovente nella mia “querida” Spagna, dove l’Aceite (olio, da “aceituna”-oliva) è da sempre vincente sulla mantequilla-burro (mentre in Italia il primato è divenuto schiacciante solo in date più recenti) dell’olio divenni non solo estimatore ma pure utente.
E arrivai pure (ebbene lo ammetto, sono un traditore, un transfuga, un rinnegato, ma ho sempre tenuto per i deboli, gli oppressi dai potenti) a “tenere” per i produttori d’olio spagnoli che combattevano una sorta di “Guerra di Indipendenza” contro gli italiani.
Accadeva infatti negli anni Sessanta che i nostrani imprenditori, arricchiti dal boom noto anche come “miracolo economico”, invadessero la Spagna a comprare (per due soldi) oleifici e uliveti, da cui una produzione di olio venduto come “made in Italy” sui mercati del Belpaese. Ma da qualche lustro le fortune di Spagna e Italia si sono invertite ed ecco oggidì gli iberici – dopo aver ricomprato quanto un tempo dovettero svendere – vantare una “industria oleicola” che produce e vende sui mercati mondiali, (“producto de España”) l’olio un tempo etichettato “made in Italy”. I tempi cambiano; “panta rei”, tutto scorre.

Andalusia, paradiso degli ulivi
In Spagna se dici “olio” pensi contestualmente all’Andalusia e grazie a quella fantastica macchina fotografica che è l’occhio umano ripercorri il verde mare delle province di Cordoba e di Jaèn (una cui località, Martos, si proclama “el mejor olivar del mundo”). Una enorme superficie non d’acqua ma di alberi, mossa dalle onde create dalle tante colline che si sovrappongono fino a perdersi nell’orizzonte.
In primavera, con il colore della terra rosseggiante ravvivato dalla pioggia, il contrasto con il grigioverde degli ulivi e il blu del cielo dà vita a panorami indimenticabili.
Olio, dunque, non solo nel senso di salute ma anche di cultura, di turismo.
Per non parlare di storia, con un pensiero alla fatica, all’oceano di sudore sparso nei secoli per ottenere questo prodigio tipicamente mediterraneo; al lavoro silenzioso dell’umile contadino, dalla raccolta dell’oliva alla sua trasformazione nel frantoio del Sud Italia e nella “almazara” (nome arabo per eccellenza) spagnola.
Valga per tutti ricordare quanto Paco Ibañez celebra in “Andaluces de Jaèn” (traduzione superflua): “Quièn levantò los olivos? No los levantò la nada, ni el dinero, ni el señor, sino la tierra callada, el trabajo y el sudor … cuantos siglos de aceituna, los pies y las manos presos, sol a sol y luna a luna, pesan sobre vuestros huesos!”.

 

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ASPARAGI DI TUTTA ITALIA (DIS)UNITEVI!!!

Non se ne può più ... di gran moda, ormai solo gastronomia ... tutti eccelsi chef ... anche in Perù ...

Non se ne può più … di gran moda, ormai solo gastronomia … tutti eccelsi chef … anche in Perù …

Vicenda (tragi)comica (ma anche turistica, neh Pro Loco?) e pure economica di un pover crist che da Milano (su segnalazione del divino Corriere) parte per una (improbabile) Sagra dell’Asparago…
gpb per mondointasca.org del 18/5/2011

Avventura escursionistica-mangereccia alla ricerca spasmodica (e reclamizzata, per giunta) del succoso vegetale primaverile. Dove? A Cilavegna, nella profonda Lomellina lombarda. Cosa non si fa per un decente reportage! La prossima volta, acquisto “mirato” nel supermarket sotto casa….

Con tutto il rispetto per i 150 anni dell’Unità d’Italia, e senza rigurgiti bossiani, tutte queste identità tra le genti del Belpaese (che dicono essere così tante da “confezionare” una nazione) io non le vedo proprio. Anzi, fatta salva la lingua (ma anche a tale riguardo occorre qualche distinguo, vedi i gotici suoni gutturali che farfugliava Gustavo Thoeni nei doposci, il francofono ‘patois’ valdostano e il romanesco delle telenovelas e dei mezzibusti della Rai) a mio modesto parere a sud delle Alpi le differenze fanno (abbondantemente) aggio sulle tanto sbandierate identità.

Differenze linguistiche e vegetali
Mi riferisco, ad esempio, alla cucina con il burro e a quella con l’olio, alla diversa valutazione del peccato tra i seriosi giansenisti brianzoli e i più condonanti altrettanto cattolici ma vaticani, per non parlare della grave discrepanza filologica (segnalata a suo tempo da Enzo Biagi) laddove al Nord l’organo sessuale maschile è chiamato “uccello” e al Sud “pesce”. E non ho finito, perché recentemente, grazie a una trasferta a Cilavegna, nel norddovest della lombarda Lomellina, ho potuto scoprire un’ulteriore e per certi versi insanabile diversità: quella della cultura (la coltura è invece identica) dell’asparago. Vabbè, non sarà un argomento da massimi sistemi, ma mica si può sempre parlare del bunga bunga e del Veltroni-pensiero (se mai è balenato); a parte il fatto che si ‘fa turismo’ anche cuocendo e vendendo asparagi quindi ‘festeggiandoli’ con festival e sagre ben organizzate (know-how forse non ancora afferrato dalla Pro Loco del sullodato centro lomellino, vedi più avanti).

gast cocina pintxos aceitunas y boqueronesAsparagi diversi. Tutti gustosi
Eccoci dunque a commentare le diversità nel Belpaese dei vari tipi della (dizionario Sandron della lingua italina, De Agostini editore) “pianta erbacea delle gigliacee, il cui rizoma produce lunghi polloni carnosi gustosissimi a mangiarsi”. Prima dell’avvenuto sopralluogo a Cilavegna, ne conoscevo tre. Oltre ai sottili, ‘redditizi’ (quanto a sfruttamento, ne puoi mangiare almeno tre quarti, butti via poco) asparagi cosiddetti ‘selvatici’ o ‘di bosco’ (in Spagna noti come ‘trigueros’, del grano) mi erano infatti noti quello verde della piemontese Sàntena e della adiacente Poirino (e più o meno identica pianta è coltivata nel napoletano e negli emiliani campi di Altedo) nonché il celebrato asparago bianco di Bassano (e glissiamo sui colori, sennò i veneti comincerebbero a ciacolare pure sulla supremazia – altra differenza – della loro lattea polenta appetto a quella gialla del resto delle Alpi).

“Asparago Day” con uova in “cereghino” o uova sode (emulsionate!)
E per dar vita a un sano derby erano già sufficienti questi due ultimi tipi di asparago, anzi, la diatriba campanilistica potrebbe già iniziare con una discussione sulla “loro morte”, in che modo papparli: tradizione dice infatti che il verde va bollito eppoi coperto da un uovo al burro su cui depositare una bella grattata di parmigiano; mentre il bianco, post ebollizione, va intinto in una elaborata salsa, una sorta di maionese, composta da tuorlo d’uovo sodo emulsionato con olio, sale, pepe e pochissime gocce d’aceto. Ma, attenti! i “ovi” – solo il rosso! – “i gà de esser duri”, urlava perentorio il mio amico bassanese Francesco Bonaldi al pranzo di inaugurazione della agenzia viaggi, provvidenzialmente aperta a pochi metri dal celebre ponte sul Brenta e della Grappa. Fin qui le differenze ‘botaniche’ e quelle, non meno importanti, culinarie.
Dopodiché eccoci ai risvolti “turistici”, perché, come già suesposto, come si serve la Patria facendo la guardia a un bidone di benzina (così mi insegnarono in caserma, e non perché già antan il carburante fosse caro per colpa delle tasse governative) parimenti “si spinge” il Turismo Nazionale (fosse solo per la gioia della ministra Brambilla) anche organizzando una Festa dell’Asparago. Beninteso non quella (si fa per dire) organizzata a Cilavegna, un “Asparago Day” di cui alla seguente, telegrafica narrazione (beninteso con ‘ampia facoltà di prova’: nel mio seguito viaggiava un adepto a quella casta notarile che può perfino permettersi di non giocare al Superenalotto).

Bacalao....

Bacalao….

Il sogno: asparagi da gustare e da comprare
Sabato 7 maggio, ore 7, leggo sul Corriere (Lombardia, Feste e Sagre) che a Cilavegna nei giorni 6-7-8 (e così recita pure la “reclàm” all’ingresso dell’amena cittadina) ha luogo la Festa dell’Asparago. Ore 10: dato che di tanto Dop locale (l’asparago) ne sentivo parlare da più di 60 anni, convinco il sullodato notaro e un mio ‘vicino di tomba’ a compiere un blitz nella a me cara Lomellina (arrapato giovanetto partivo infatti da Novara e “andavo a mondine” nel mortarese, mai però che ci sia scappato uno straccio di bunga bunga). Ore 13.00: dopo aver ammirato all’ingresso della cittadina una sorta di Memorial all’Asparago (qui “Rosa”; la solita italica “differenza”) eccomi a Cilavegna. Laddove la mia forse eccessiva, fanciullesca fantasia di viaggiatore e di cronista (di Sagre, Feste, Fiere, Mercati ne avrò visti almeno 1000, e in tutto il mondo) mi faceva pensare (era l’una di un primaverile sabato, ormai considerato festivo o quasi) a bancarelle, vendite del prodotto festeggiato, negozi aperti e ristoranti (com’è ormai di moda dire) “presi d’assalto” (beninteso fornenti in pasto il pubblicizzato ‘magnare’ motivo dell’attrazione per il turista).

Cilavegna, no Asparagi, no People
Ore 13.02: invece niente, una bella fava (nel senso di nisba), il vuoto! Cilavegna center-downtown come le Ghost Towns degli Spaghetti Western di Sergio Leone. Il deserto, nessuno in giro. Chiuso il posto della Pro Loco in cui ‘a cena avrebbero dispensato’ gli Asparagi (mai visto una Festa o quel che l’è, durare così poco, la notte del sabato e – spero – la domenica?). “Scoperto” infine l’unico ristorante aperto, io e il mio seguito suscitiamo caos chiedendo se hanno gli asparagi (scuotono mestamente il capo); meno disagio sarebbe sorto se avessi chiesto un Ragù di Lingue di Pappagallo. No Asparagi, no fermiamoci. Da bravo inviato proseguo le indagini come un segugio. Altro posto dove mangiare? No problem, mi fa un documentato cilavegnese, a 2 chilometri c’è un posto mangereccio sulla strada per Mortara.
Ore 13.12: si corre (da ‘ste parti tiran giù la clèr alle 12 e fino alle 16 sembra di essere in Messico, il deserto). E il locale suggeritoci c’è! Ma non per fare i razzisti in Lomellina, però si chiama “Spaccanapoli”, alias solo pizza con vista su una maglia di Maradona. Asparagi (provi comunque a chiedere, “dovrebbe” esserci la Festa-Sagra di cui sopra)? Ma quando mai! Fuga.
Ore 13.21: disperati a Mortara, ristorante che se la tira (vuoto, avremmo poi pagato anche per i renitenti), arriva il solito (te pareva) petto d’Oca poi, però, ecco finalmente gli asparagi. Ma solo (era tutto già precotto) in un Risotto che per di più invece che ‘Rosa’ appare scarlatto in quanto “rivisitato” (si rivisitassero le sorelle loro, ‘sti moderni sciocchi chef che solo per scena mettono il pompelmo e le pastiglie Valda sull’uovo al burro) con ‘orrorosa’ aggiunta di barbabietole.
Ore 15.01: si torna a Cilavegna, tanto per (tentare di) comprare qualche asparago. Altre affannose ricerche. Poi però, colpo della madonna, ecco indicato un negozio che li vende. Ma il negozio, come tutti i suoi simili, è provvisto di vetrina. Sulla quale sta scritto: “Oggi niente asparagi”.
Ore 15.25: comincia a spuntare qualcuno in giro, un cireneo ci manda in campagna nella trattoria di un amico a comprare ‘sti strafottuti asparagi (quando mai ho letto il Corriere stamattina); nella trattoria ci fanno mangiare (vabbè, stavolta asparagi) per la seconda volta in un’ora, poi ci vendono gli asparagi (in cassetta: da Cartier, a quel prezzo, ti mettono almeno la ‘merce’ in un cofanetto).
Ore 17.53: torno a Milano, ero partito con 112 euro, adesso ne ho 2. Mah. Turismo! Quante vaccate si commettono nel tuo nome (ovvìa, gli è tutto sbagliato, tutto da rifare, diceva il buon Bartali.
P.S. … Cara sciura Brambilla… questa dovrebbe essere materia di interessamento per il suo ministero (mica i soliti blablabla e ‘protocolli’…).
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VINO…. VERONA, UNA GIORNATA A VINITALY

Il bianco, secondo alcuni è solo una.... bevanda (che il vino sia solo quello rosso???)

Il bianco, secondo alcuni è solo una…. bevanda (che il vino sia solo quello rosso???)

Una domenica nella città di Romeo e Giulietta non per monumenti ma per degustare i rossi, i bianchi e rosé a Vinitaly. La manifestazione veronese, giunta alla 49esima edizione, è un importante appuntamento per mostrare al mondo la magnificenza dei nostri vini e distillati

Vinitaly 2015
“Vuoi venire al Vinitaly?” mi fa l’editorpadrone di questo baldo magazine on line, incurante del rischio di finire vittima della mia logorrea nostop tra Millano e Verona. Come se non gli bastassero i problemi assillanti di chi nel Belpaese muove le chiappe e tenta di combinare qualcosa facendo girà i danée. E a proposito di on line, paroline anglosassoni di gran moda, temo che sulla linea, nel senso del web, sia finito proprio tutto il pensiero universale (tranne, forse, la Bibbia) non esistendo più chicchessia, fosse solo un ex usciere di case editrici ‘con ascendente turistico’ o un agente di viaggi in quiescenza, che non possegga un blog pontificante turismo, evviva!.

Alla proposta di andare al Vinitaly, un appuntamento che mostra al mondo la magnificenza dei nostri vini e distillati, giunta alla 49esima edizione, dico sì con doppio anzi triplo entusiasmo per altrettanti motivi che passo contestualmente a dettagliare:
1) La sete (beninteso non di Boario o San Pellegrino) non è una colpa (trattasi di uno dei miei rari copyright riscuotenti un certo successo, un aforisma ahimè datato, risalendo a un mio ciucco ritorno a casa con obbligo di spiegazione appetto a una madre perplessa).
2) Il desiderio di verificare se dopo più di mezzo secolo di assidua e indefessa Utenza Enologica sono finalmente riuscito a capirne qualcosa deglutendo: i Rossi (ma per molti venuti al mondo prima del 1940 il vino continua a essere Nero); i Bianchi, ancorchè per me, gran aficionado al … Nero, salvo rari casi costituiscono una peraltro buona bevanda; e i Rosati, ma fa più chic dire Rosè, che però, ahiloro, in Italia sono sfigatamente ignorati imperocché (parlando come quelli del marketing) “mancano di pierre”. O forse perché (qualche matuso lettore ricorda) un mucchio d’anni fa fu fatta

Olio virgen extra andaluso (diffidare da quello del Belpaese....)

Olio virgen extra andaluso (diffidare da quello del Belpaese….)

tantissima rèclame televisiva a un vinello (una pisciazza per il mio grande amico Mimì, leccese doc, quindi conoscitore dei corposi rosati del Salento) di nome, appunto, Rosatello, che fu voluto leggerino per accompagnare le cene al lume di candela di sbarbate coppie di fidanzatini. Da cui si evince che il lamentato vinello non poteva certamente competere con l’allora imperante, nerissimo, anzi un inchiostro, Manduria (ohèi la peppa se l’era duro, infilavi la forchetta nel bicchiere e stava in piedi, né scherzava il piemontese Barberato che a Novara mi vide esordire nel bacchicoAreopago). E ricordo pure lo Squinzano, altro nome e nume di ogni ciocca che si rispettasse nei Trani (mitico quello di Strippoli in piazza Santo Stefano) di una Milano (appunto da bere) in cu un fiasco del suesposto, Rosatello non sarebbe stato aperto nemmeno per bagnare i fiori.
3) Ultimo dei motivi che mi spingevano in gita a Verona con il pressoché astemio editorpadrone (che andava a ritirare un premio per Mondointasca, ahinoi solo una statuetta, roba non stappabile…): verificare se nel Sancta Santorum degli a me cari vini potevo finalmente abbeverarmi al Verbo semplice di chi non se la tira) nel senso di sentire giudizi, critiche, spiegazioni, commenti semplici. “umani” da parte di quei Soloni con la argentea coppetta pendente (fa più chic dire tastevin) noti anche come Sommeliers. Sì, perché, lo confesso, nonostante la suesposta lunga utenza nel sollevamento bicchieri (quindi impegnato in una colta ricerca non del perché – lo so già – ma del cosa bevo) ho trovato ben pochi Sommeliers che dopo aver assaggiato e spiegato al colto e all’inclita com’è quel vino (sapori, terreno, acidità, salinità etc etc etc) invece di finirla lì (ce n’è già abbastanza per saper conoscere e valutare quel che stai bevendo) comincia a menarla tirando fuori profumi & olfatti di metà di un negozio di frutta & verdura fin quando, perso il conto, cominci a pensare che il Baccoesperto ti stia prendendo per il culo.

Gian Paolo Bonomi e Pietro Ricciardi a Vinitaly
Mi riferisco al vino che hai appena finito di bere e meditare, ti è piaciuto, concordi quando ti dicono che, tanto per dire, è organoletticamente corretto etc etc e ha tante altre cosine a posto, tutto ok, dopodiché, ay ay ay, ti viene enfaticamente non meno che pomposamente, sentenziato (e qui i miei dubbi diventano angoscia) che… “quel vino nasconde un aromatico sapore di pera, ma non Williams, per non dire di quel distante profumo di fico, ma non d’India, nè scappano (pur loro!)

Un bel bicchiere di Sangiovese alla salute di chi legge....

Un bel bicchiere di Sangiovese alla salute di chi legge….

lontane presenze di rosa, ma forse non canina” … e quando pensi che gli odori dell’esperto siano finiti ecco il coup de thèatre… “dell’aroma di pesca, ma va a sapere di che razza, per finire con quel curioso retrogusto di viola, forse mammola” (“che voi certamente percepite” – e tutti a far sì con la testa – commenta il Sommelier concludendo quella che, già detto, ritengo una sana presa per il culo)…
1° p.s. raramente, ma capita anche che nel finale della pistolata qualche saggio sussiegoso Enocritico scopra pure un sia pur remoto sapore di liquerizia).

Ecco spiegato perché mi pervade un senso di smarrimento ogni volta che si parla di degustazione, assaggio, esame dei vini, in spagnolo Cata, e non è per bontà nei confronti della mia querida Spagna ma forse forse i suoi Sommeliers anzi Sumiliers te la contano su (ma a pensarlo è solo aficiòn) meno spocchiosamente, nel senso che ti perdonano almeno un 30% tra mele (renette e non), susine, pesche e fragole ispiranti quello che stai bevendo.
2° p.s. a ciucca sopita aggiungo pure che:
1) Vinitaly è divenuta una manifestazione a dir poco eccezionale (e tale è anche il costo del biglietto di ingresso, 60 euro, che il visitatore cerca di ammortizzare questuando assaggi di rosso, bianco e rosé ai 4000 -!!!- espositori).
2) Tra tantissima gente ho visto -evviva!- moltissimi giovani che temevo ahiloro ormai Cocadipendenti (nel senso di Cola).
3) Dai e dai (e con tutto il rispetto per il già lodato editorpadrone pugliese, e un giovinotto sardo che a noi si unì nella gita, da cui una mia obbligatoria visita e assaggi nei loro stand regionali) i vini del da me adorato Vej Piemont continuano a faje na pippa (folle solo paragonarli) a tutti gli altri dello Stivale (salvo al Poculum dei mè amìs Fratelli Agnes di Rovescala, ma, guarda caso, nel pavese i lombardi dell’Oltrepò sono detti i piemontesi….). Cerèa, neh ….

x mondointasca.org 26/03/2015