L’intrigo di una mini Venezia di pietra nel cuore del Pacifico
gpb x mondointasca.org del 25/5/2006 …. nella foto di copertina: le Rock Islands a Palau, Micronesia
Allacciare le cinture e prepararsi per un lungo volo.
Si va in Micronesia, a Ponape o Ponhpei. Non stupisca il doppio nome. Una quindicina di anni fa, una sorta di revisionismo culturale, per meglio dire geografico, ha inventato nuovi nomi (non molto dissimili da quelli precedenti) per la miriade di isole che si distendono nell’oceano Pacifico, tra il tropico del Capricorno e l’equatore, lungo la sterminata distesa d’acqua tra le Filippine e le Hawaii. Non ha cambiato appellativo soltanto Ponape: Palau è divenuta Belau e Truk attualmente si chiama Chuuk.
Ponape, acqua in abbondanza
Della Micronesia (lo dice l’etimologia del nome: insieme di “piccole isole”) l’ex Pohnpei è considerata il giardino, il trionfo della vegetazione, la sinfonia di una flora rigogliosa per il semplice motivo che a Ponape piove, eccome, anche se il viaggiatore talvolta é male documentato o peggio informato e quindi passeggiando tra ibiscus e orchidee, pensa ingenuamente che nel bel mezzo di una terra selvaggia esistano legioni di indaffarati a “bagnare le piante”.
Tante foreste pluviali e alberi di spezie (i locali giurano che il loro pepe é il migliore del mondo) sono infatti il risultato di poco meno di cinquemila millimetri d’acqua in trecento giorni piovosi dell’anno, ben sette volte di più rispetto alla media del Belpaese.
E forse forse il numero delle giornate bagnate è in difetto, se si dà credito a una popolare battuta locale dallo humour un filino british: a chi chiede quale è la stagione secca, viene risposto che lo fu un pomeriggio di un giorno di febbraio di tanti anni fa.
Non si spaventi, comunque, il viaggiatore in partenza per Ponape; un ombrello fa comodo, ci mancherebbe, ma i nuvoloni si alternano velocemente a un potente sole, non senza aggiungere che l’altissimo livello di precipitazioni è dovuto al fatto che quando piove l’acqua viene giù a mastelli, fortunatamente – per chi visita – soprattutto di notte.
Grande come il lago di Garda
Si atterra dunque a Ponape, per scoprire che nell’oceano più bello del mondo c’è ancora qualche genuino angolo degli ahinoi quasi scomparsi, eppertanto sempre più introvabili “Mari del Sud”. E per scoprire anche che il recente detto di gran moda (Piccolo è Bello) è decisamente valido. Siamo infatti arrivati in una località (Kolonia) che è pur sempre una capitale (dei Federated States della Micronesia) ma grazie alle enormi distanze dalla cosiddetta civiltà (consumistica) e alle umane dimensioni di questo grande paesone (diecimila abitanti su un totale di trentamila, distribuiti su un’isola di 343 chilometri quadrati, come il lago di Garda, la visita risulta davvero curiosa e piacevole. In più, anche se ridotta a un puntino quasi invisibile su quell’ampio spazio blu della carta geografica chiamato oceano Pacifico, Ponape vanta pure la sua brava storia, oltretutto intrigante e misteriosa.
Il mistero di Nan Madol
Oggetto del mistero e dell’attrazione (“highlight”, direbbero i giramondo “yankee”) è Nan Madol, una città morta, vero rompicapo per gli archeologi che nonostante tanti studi e altrettante supposizioni sono a malapena risaliti alla sua età (si ipotizza il XIV secolo).
Si tratta di isole artificiali all’interno della barriera corallina – separate da un dedalo di canali resi ancor più intricati dalle mangrovie – sulle quali sono stati eretti edifici composti da blocchi di basalto pesanti varie tonnellate e trasportati (un mistero come) da un lontano, aguzzo sperone di roccia che a mò di faro sovrasta Kolonia.
Davvero una meraviglia, e pertanto gli studi nel cercare di capirne le vicende vanno compresi e giustificati. Se si pensa infatti che non scema la nostra ammirazione verso chi costruì abilmente città acquatiche come Venezia e Amsterdam, in epoche storiche in cui l’Europa aveva già dietro le spalle secoli di grande cultura, ci sembra giusto dedicare un plauso (beninteso fatte le dovute proporzioni, sia in termini di dimensioni che di estetica) verso sprovveduti indigeni che -si permetta la volgarità di una espressione ormai di moda- nel buco del sedere del mondo affrontarono e risolsero calcoli talvolta ancora ostici per qualche odierna impresa di costruzioni.
Tra spagnoli, tedeschi, americani e giapponesi
L’interesse storico proposto da Ponape non si circoscrive a Nan Madol, ma si estende agli ultimi due secoli delle vicende universali. Negli ultimi anni del XIX secolo l’impero spagnolo ormai alla frutta e quello tedesco sorto dall’unificazione operata dal Kaiser, non trovarono di meglio che scontrarsi in scaramucce, quasi battaglie, in questo remoto angolo del Pacifico. Notevole la visita ai resti del Forte Alfonso XIII (poco distante si osserva il campanile della Missione Tedesca) e al cimitero di Kepinle che ospita, accomunati, gli indigeni che nel 1910 si rivoltarono contro il dominio coloniale e i marinai dell’incrociatore Emden che sbarcarono per imporlo.
A metà del XX secolo, con combattimenti noti anche ai sommari conoscitori della storia contemporanea, solo perché immortalati dalla cinematografia, Ponape e le altre isole dell’arcipelago micronesiano furono vittime della guerra tra i Marines di John Wayne e la Marina Imperiale di Hiro Hito.
Ospitalità “italo-yankee”
Fortunatamente più tranquilli e sereni i recenti anni che seguirono al Secondo Dopoguerra, grazie soprattutto al “boom” dei trasporti aerei favorenti quel grande fenomeno socio-economico chiamato Turismo.
Chicca deliziosa di Ponape (che dispone soltanto di semplici strutture alberghiere per visitatori senza grandi pretese) è senza dubbio il The Village. Il soggiornarvi, si diceva un tempo, vale il viaggio. Un resort di ventidue bungalow a mezza costa, immersi nella foresta digradante sul reef (il panorama dal bar Tattoed Irishman incanta e fa rivivere i racconti di Conrad sui Mari del Sud). La semplicità spartana delle costruzioni si alterna con dettagli curiosi non meno che raffinati (abatjours vittoriane e materassi ad acqua) grazie al buon gusto e all’olio di gomito dei coniugi Arthur, che si costruirono il The Village pezzo per pezzo, con le loro mani (e nel contempo crescevano tre figli) mentre prestavano il servizio civile “made in Usa”.
Il padre di Patty -la signora Arthur- era di Crema e in tutta schiettezza non dispiace scoprire i resti dell’intraprendente “voglia di fare” padana, in un posto quasi introvabile chiamato Ponape, in Micronesia.
Ah (per chi volesse fare un salto da quelle parti): Patty Arthur spiega ben chiaramente che nel suo The Village vuole i viaggiatori, non i turisti.
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