Un’ulteriore scampagnata nella dolce terra di teatri, artigiani e deliziosi pastai…
x mondointasca.org del 20/3/2008
Tra le innumerevoli bellezze naturali del Bel Paese, la differenza è spesso data dalle cose che i singoli riescono a fare, a conservare, a promuovere. È il caso di Fermo, nella provincia ascolana, dove si esalta la “tipicità”
Sono un signore (ma fortunatamente non ricco, perché oggi non è più di moda girare in Suv, ce l’hanno tutti) che può vantare una curiosa caratteristica. Infatti, come un tempo si diceva delle persone prive di senno “Gli manca un venerdì”, a me “Manca un weekend”, nel senso che ogni anno, in marzo, non posso disporre di un fine settimana, più esattamente quello dedicato alla celebrazione di “Tipicità” (www.tipicita.it) nella marchigiana Fermo, una balda manifestazione alla quale il suo Patron Angelo Serri non si stufa di invitarmi né io mi stufo di accettare l’invito.
Datosi però che (fatta eccezione per la mia adorata Spagna e la tenera Romagna del mio babbo) raramente torno per la seconda volta in un posto se non mi è piaciuto oltre misura, mi viene spontaneo chiedermi perché mai nutro tanta inossidabile aficiòn nei confronti delle Marche.
Oddìo, all’avvicinarsi di “Tipicità”, qualche dubbio “se vale la pena andarci”, lo confesso, mi assale. Ma alla fine la passione prevale sulla ragione (ma non hai ormai visto abbastanza? mi chiedo criticamente) dopodichè rieccomi a Fermo e dintorni (dolci e riposanti verdi colline, senso di pace, ma sulla bellezza dei collinosi paesaggi glisso, sennò porto via il posto al Leopardi).
Competizione “ad personam” sulla bellezza
Il fatto è che le Marche (per parafrasare un’antica ‘rèclame’, quando ancora erano permesse, sull’autostrada Torino – Milano segnalante un ristorante sulla collina torinese) “valgono il viaggio”, e qualcosa di più.
Più ci vado e più me ne convinco. E dirò di più: non certo per lo stolido piacere di andare controcorrente parlando male dei rituali mostri sacri del nostrano turismo, bensì per intima convinzione, arriverei a commentare che (fatta salva beninteso l’inattaccabile magnificenza di Firenze) “le Marche sono più belle della Toscana”. E già che ci sono (fosse solo per rendere la pariglia all’allenatore balompedico Renzo Ulivieri che commentando le gesta del “mio” allenatore nerazzurro Roberto Mancini, nativo di Jesi, ha sentenziato “mai visto un marchigiano intelligente”) dichiaro pure pubblicamente che “mi piacciono di più quelli nati tra Pesaro e Ascoli Piceno rispetto a quei polemicacci dei toscani” (che oltretutto, se la mettiamo calcisticamente, per vedere “andar bene” la Fiorentina han dovuto aspettare che arrivasse un calzolaio marchigiano a metterci i soldi).
Esaltazione di sapori e profumi…
Tutto ciò premesso, vorrei chiosare brevemente, non tanto sul termine, sulla parola “Tipicità” (ahi quel sapido Ciauscolo, i prosciutti di Visso, le mai eccessivamente assaporate Olive all’ascolana, sul tutto quella sferzante sinfonia per il palato orchestrata dal Mistrà Varnelli), quanto sull’aggettivo che ne deriva, “tipico”. Per concludere che se i prodotti della loro terra sono, sì, “tipici”, i mè amìs marchigiani sono invece “atipici” (leggasi diversi, speciali) rispetto a chi vive nelle regioni limitrofe e più in generale all’attuale normotipo italiano. Soprattutto per due caratteristiche peculiari che continuano a colpirmi, a intrigarmi: il lavoro (fatica e applicazione non disgiunte dall’estro, inventività, produttività) e la cultura.
… nella tradizione culturale e lavorativa
Accenno al lavoro ed eccomi alle prese con la New Entry di “Tipicità” (nel senso di ultima delle visite organizzate dall’Angelo Serri a conoscere gente che ha sfangato duramente), nella azienda (ha da poco compiuto 30 anni, “enhorabuena” augurano gli spagnoli) di Silvano Sassetti in quel di Monte San Pietrangeli (vedere per credere www.sassettisilvano.it). Ohèi, poche balle, il nostro imprenditore non sta mica lì tanto a contartela su, tirando fuori la erre moscia e buttando lì qualche magnanimo lombo rafforzato dal doppio cognome, no, saluta la stampa in visita e ipso facto ti informa che lui a 13 anni è andato a bottega partendo da zero, si è fatto un mazzo così, ha percorso senza stop per rivendicazioni sindacali né manifestazioni con ‘trombette perepè perepè’ il Golgota del lavoro e adesso eccolo lì, con una distinzione datagli dal fisico e dall’un tempo definito ‘nobile’ lavoro, a esibire gioielli di lussuose non meno che costose ed eleganti scarpe “alla pelle di” squalo, struzzo, anguilla, salmone” etc etc etc (robb de matt, ogni giorno si deve imparare almeno una cosa, e io quel giorno appagai l’esigenza già alle 11 del mattino).
Marchigiani “atipici”, si diceva, anzi ho scritto poco sopra. Lo sono nel lavoro.
Le differenze con Toscana e Romagna
Nell’adiacente Toscana, ad esempio, campano più di turismo (ricco, snob, agriturismi cari, terreni a peso d’oro nel Chiantishire), non abbondano le imprese personali nate dalla sudata trafila “alla Sassetti” secondo l’iter “partire dal nulla, imparare sudando, mettersi in proprio, avere successo / eccellere”.
“Sopra le Marche”, le Romagne contano ancora sulla terra (il cui prodotto, la frutta, è stato sfruttato industrialmente) e più a nord l’imprenditorialità è poi sempre prevalentemente sfociata in industria, a volte pure grande. Non parliamo poi del Sud, a poco più di un’ora d’auto da “Tipicità” un Sassetti locale avrebbe trascorso una vita seduto al bar della piazza del paese aspettando che lo Stato “facesse qualcosa per lui”, altro che inventare “atipicamente” le scarpe al salmone o all’anguilla da mettere in vetrina in St James Street o sulla Fifth Avenue.
Passione popolare per il teatro
E prendete la cultura. Sarà l’età (che mi rende più sensibile alle emozioni), sarà il rimorso per aver sciupato troppo tempo a vedere tivù generaliste, fatto sta che mi intenerisco ogni volta che il Serri mi porta a vedere un nuovo teatro (stavolta quello “della Fortuna”, a Monte San Vito, mini mini, solo 80 posti!!! A.D. 1757 www.montesanvito.pannet.it). Sono forse rincitrullito? Oppure sto solo valutando (il giusto) una incredibile realtà (“atipicamente” marchigiana) consistente in una regione straordinariamente lardellata di teatri (dov’altro nel Belpaese?), posti di cultura che se ci sono è perché la gente ci va, e per di più ci andava in un secolo (il XVIII, quasi tutti i teatri delle Marche risalgono a quell’epoca) in cui il locale Governo Chiesa combatteva i Lumi, le novità, la gente che si incontrava, parlava, diceva.
E in chiusura si parli di cose serie. Prima di tutto “facendo la reclàm” (stranamente gratis, non prezzolata: il primo piacere palatale l’ho comprato e l’altro l’ho solo assaggiato perché non in vendita) ai maccheroncini di Campofilone del Pastificio Casoni www.pastificiocasoni.it e al “muy rico” olio della gentile e dotta signora Petrini www.organicfood.it.
Lacrima di Morro D’Alba
E infine ringraziando i Lucchetti produttori della corposa Lacrima di Morro d’Alba (www.mariolucchetti.it e anche quest’ultima segnalazione non è ‘giornalisticamente’ prezzolata datosi che anche in occasione di questa piacevole visita quanto asportato è stato giustamente non meno che doverosamente pagato). Grazie a loro sono riuscito finalmente a dimostrare la mia dotta teoria che qui ribadisco: per ottenere un buon vino non occorre “fargli toccare il legno” alias sbatterlo nella (però di moda) “barrique”.
W il vino non “barricato”!!! W le Marche di “Tipicità”!!! W gli “atipici” marchigiani!!!
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MARCHE – MA CHE TIPICI QUESTI MARCHIGIANI
Una visita a Tipicità
Ognuno di noi ha un suo calendario personale, nel senso che – oltre alle solite festività civili e religiose, e al compleanno di figli e mogliera – nello spazio di un anno memorizziamo alcune date coincidenti con vicende o particolari avvenimenti ai quali ci è grato partecipare. Con il passar del tempo questi appuntamenti diventano un’abitudine, una tradizione alla quale non vogliamo rinunciare. Tanto per produrre un esempio, tra alcune mie irrinunciabili abitudini annovero una manifestazione inventata dall’Angelo Serri, Tipicità, Festival dei Prodotti Tipici delle Marche, in quel di Fermo, alla quale sono immeritatamente invitato da un paio di lustri (quest’anno è giunta alla 13a edizione).
Ho bigiato poche volte. Dopo un paio di partecipazioni, però, mi sono anche chiesto quali motivazioni mi spingono e convincono ad affrontare – sulle nostre indegne, poco informanti e carissime autostrade – più di un migliaio di km in auto (Milano / Fermo / Milano = 960 km, cui vanno aggiunti due canonici blitz, sulla collina romagnola in quel di Meldola a comprare il castrato e a Carpi per grana e Lambrusco). L’indagine su “Perché tanta aficiòn marchigiana a metà marzo di ogni anno?” è da me condotta per esclusione. In primo luogo non mi metto in viaggio per disperazione provocata dalla disoccupazione: fortunatamente la mia giornata milanese dura ancora 25 ore (sennò, sai che bello finire alla bocciofila o a rompere le balle a chi lavora ancora?).
Escludo poi che a farmi partire sia il tempo: da lustri, informano i tanti discendenti del Bernacca su non meno tivù, il Nord del Belpaese – segnatamente el mè Milan – è una sorta di Florida con accettabili temperature e poche precipitazioni mentre da Bologna in giù barbellano tra freddo e nevi. E respingo infine, fermamente, l’idea che la trasferta possa essere motivata dalle rituali, tremende sbafate proposte da Serri con sempre maggior veemenza. Per la cronaca trattasi (conteggio in difetto) di: 5 paciate 5, dalla cena del venerdì a quella della domenica) cui aggiungasi qualche merenda, eppoi vini, vino cotto e vinelli vari (ahi la gioiosa Vernaccia di Ripatransone), assaggi durante la visita agli stand Tipici e, ante-pasti, aperitivi con le ovvie non meno che onnipresenti e parimenti goduriose olive all’ascolana (cui si sono miracolosamente aggiunte quest’anno, allo Yacht Club di Porto San Giorgio, mazzancolle fritte da inginocchiatoio), indi non enormi ma frequentissime degustazioni di mistrà (al top il Varnelli, ma van giù anche quelli casarecci) per non parlare di qualche salsiccia lungostrada e dolcetti andanti ad deporsi sui maccheroncini di Campofilone. Oddio, ci sarebbe pure il pacco-dono, slungato da Serri (come facevano le crocerossine nei campi di concentramento) al momento del congedo: vabbè, qualcosa (si fa per dire) c’è dentro, ma uno mica si fa più kilometri di un GP di F1 solo per qualche genere di conforto marchigiano. Ecco quindi che non sono spinto a Fermo e dintorni dall’esecranda Fame dell’Oro né dal piacere di farmi largo nella vita (ancora un paio di Tipicità e il mio fisico di falso-grasso potrà vantare più centimetri di circonferenza che di elevazione).
No. E allora, perché continuo ad andare nelle Marche a metà Marzo? Elementare Watson. Ci vado per depurarmi (mentalmente, ça va sans dire), per godere quella che considero la vera Italia, per gustare il bello e la cultura, per avere conferma che le ideologie nulla contano (l’importante è chi le interpreta) e che nel Belpaese esistono ancora posti dove sopravvivono i rapporti umani. Vado nelle Marche e mi depuro da Milano (ma tutte le grandi città dello Stivale sono un’unica grande, invivibile cloaca) non tanto dalle sue polveri sottili (a lungo andare ti abitui a respirare la cacca e provi ribrezzo se ti fanno odorare Chanel N° 5) quanto dall’imbarbarimento della cosiddetta gente.
Nell’ormai enorme suk milanese la maleducazione impera, ai semafori sciurette arricchite ti violentano l’udito strombazzando da fuoristrada da centomilioni di vecchie lire (chi scrive lavora in un ammezzato su un quadrivio e sta peggio del Calindri al tavolino nel vecchio spot del Cynar); poco più in là quello dell’auto dietro spara clackson e un paio di vaffanculo se al verde quello dell’auto davanti non parte sgommando come Schumacher; mentre un poveraccio mangia squallidamente per strada un tozzo di pizza sugnosa farcita di smog un camioncino diesel lo condanna al cancro al polmone ruttandogli addosso una bella fumata di gasolio. Che belli, quei panorami della Valdaso, campi e boschi, sui colli castelli e campanili, borghi medioevali ripittati e puliti, sindaci e politici dei campi senza spocchia e puzza sotto il naso.
Ti aspettano e ti accolgono a Monterubbiano, Moresco, Ortezzano, gente pulita, il loro benvenuto è genuino, entusiastico, pochi interessi immediati nel riceverti e comunque di poco conto: sarà mica questa la vera Italia, appetto a quella che vedi in Montenapoleone piuttosto che in via Manzoni, incazzati indaffarati intruppati a far soldi dopodichè non ce la fanno ad arrivare a fine mese? In politica si studia (ma lo studio è sempre teoria) che comunismo vuole (o voleva?) dire Stato, niente iniziativa e tantomeno proprietà privata, grandi Piani Economici. Poi vai nelle rosse Marche e non si contano aziende, miniindustrie, ex operai che si son messi in proprio, grassotte giacenze in banca, benessere da palla avanti e pedalare, il resto è tutto blablabla. Altrove, nel Belpaese, se si parla di cafoni non è il caso di parlare di cultura. Vai allora a capire perché nelle agricole Marche a metà ‘800 (e sotto i Papi mica girava er libbero pensiero) si contavano più di 100 teatri (adesso in gran parte ristrutturati, delizioso quello di Porto San Giorgio).
Per carità di patria chiudo quest’ode alla civiltà marchigiana appetto alla neobarbarie milanese. Non voglio infierire. E tanto meno profetizzare ai miei concittadini che se sotto la madunina continuano a scannarsi sì indegnamente per la conquista della appena rifatta Scala, l’anno prossimo per godersi un’opera dovranno finire in qualche teatro marchigiano (beninteso dopo un’accurata visita – e acquisto di ciauscolo incorporato – di Tipicità).
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