1 TARTUFESCA ”FULL IMMERSION” NELLE MARCHE AUSTRALI

Laddove… “ritornando dove già fummo”… -copyright dannunziano- rieccomi nelle Marche per saperne di più sul Tartufo Nero (e altre leccornie di quei balossi dei marchigiani, raffinati bon vivants)…
gpb x mondointasca.org …. nella foto di copertina (Matteo Fini): Paesaggi della campagna novarese

Pecore&Piceno

Pecore&Piceno (ma ci sonoo anche i tartufi, beninteso neri….)

Ogni gita, un pretesto. Per ricordare gli anni della gioventù, per riscoprire e far conoscere al lettore angoli d’Italia meravigliosi, per assaporare le bontà della natura, in questo caso sottoforma di piccoli tuberi neri

Procedo alla spiegazione del criptico titolo mediante le seguenti precisazioni e commenti.

1) Tartufesco: niente a che vedere con quanto leggesi nel dizionario italiano.it (aggettivo “di, da ipocrita”) trattandosi invece del tubero chiamato Tartufo (in inglese, Truffle, parola che rispunterà nel prosieguo della narrazione) nella sua versione Nera (ancorché – anche – nelle Marche si reperisca il tartufo bianco, non rispondendo quindi a verità quanto dicono, o per meglio dire, fanno pensare quelli di Alba, e cioè che la da loro chiamata Trifola bianca cresce solo da quelle parti, tutte balle).
2) Full Immersion: in inglese Studio Approfondito di un argomento, di una realtà e a tale livello è risultata la mia conoscenza del Tartufo Nero, ma, tradotto più letteralmente, significa Immersione Totale, laddove informo che purtroppo la suesposta Recherche è avvenuta più o meno immersi nell’acqua, nella doppia versione di pioggia e neve (chapeau ai cani incaricati al reperimento del prezioso tubero mediante il naso – guarda caso detto tartufo – esplorante nella ghiacciata melma).
Ricordi militareschi
3) Marche: regione a me cara (suoi abitanti ivi compresi, forse un filino troppo disinvolti, per non dire figli di buona donna – ma è un complimento – almeno a detta dei romani, che se li ritrovarono in casa rapaci esattori del fisco di Santa Romana Chiesa). Nelle Marche, pertanto, mi precipito appena mi fanno un fischio. Ma se è per questo vi andai financo convocato da una marziale cartolina precetto invitantemi al XIII° Corso Allievi Ufficiali di Complemento in quel di Ascoli Piceno. Non ricordo bene (“è passato tanto tempo” diceva Bogart-Rick in “Casablanca”) in che epoca del secolo scorso rischiai di essere trasformato in un duro Rambo (ma fui subito scartato con quasi infamia, marchiato dal vergognoso acronimo Ram, ridotta attitudine militare).
In compenso durante la tartufesca gita oggetto di queste righe ho scoperto che soggiornai in quella stessa caserma oggidì definita a luci rosse per la presenza di allieve soldatesse “istruite” da maschi soldati, da cui alla recente, nota non meno che tragica vicenda noire del “delitto Parolisi”. ‘A quei tempi’, invece, e ahimè, donne nisba, salvo due casini pre legge Merlin laddove godevano solo quei pochi che arrivavano primi, 900 allievi e solo poche addette a tanto arrapanti lavori, il tutto in una libera uscita di breve durata, fate voi il conto).

Nell’australe Piceno

4) Australi: meridionali, imperocché (vetusta congiunzione di moda ai tempi del marchigiano Leopardi) Ascoli Piceno è la più australe delle città delle Marche (una passeggiata e sei in Abruzzo) oltre che, beninteso, la più bella (chi non la conosce metta la testa a posto e corra a visitarla). Tutto ciò premesso, rieccomi ad Ascoli, fortunatamente non più coatto dallo Stato (cosa non si barbellava dal freddo notturno a far la guardia all’armeria con dentro due pistole e tre baionette, un fiasco di rosso non bastava a riscaldarti) bensì invitato da “Elabora” (“Un Consorzio” – si legge su Google, divenuto ormai il più autorevole Maitre à Penser della nostra vita – “costituitosi nella provincia di Ascoli Piceno come rete di imprese intente a rendere la Cultura uno strumento operativo al servizio dello Sviluppo”). E datosi che “Elabora” altro non era che l’organizzatore di Truffle & Co. (alias Festival del Tartufo Nero pregiato, sottotitolo, il Nero che accende la passione), ecco spiegata la mia presenza sulle dolci colline delle Marche adagiate fra i misteriosi (pare ovvio, con quel nome mutuato dalla Sibilla) monti Sibillini e l’Adriatico contornato dalle dannunziane tamerici.

‘Immersioni’… Trufflesche
La Tartufesca Full Immersion si è svolta ai primi di dicembre, periodo non certo il migliore quanto alle bizze del meteo (poveri quei baldi giovani incaricati di scorrazzarci su e giù nell’ascolano), però obbligato, datosi che solo a fine autunno, e per pochi mesi (che strana analogia con la caccia, e in entrambe le vicende occorre il cane) è permessa la ricerca del Tartufo, alias Fungo Ipogeo, alias (in latino) Tuber (Magnum quello bianco), alias (in piemuntès) Trifula (e Trifulau l’esperto che lo rinviene). Beninteso (sennò che Immersione sarebbe stata) la gita nella terra dei Piceni (popolo tosto che prima di mettersi d’accordo coi romani aveva fatto a botte coi Galli) fu, sì, precipuamente dedicata al Tartufo (da cui la nostra costante presenza al PalaTruffle, quartier generale del Festival, in Roccafluvione).

Grolle valdostane....

Grolle valdostane….

Appetiti culturali saziati tra Ascoli e dintorni
Diversamente dalla povera Maria Antonietta (brutta fine, però con quel toujours perdrix direi che la ghigliottina se la cercò) i nostri toujours truffle (degustazioni e visite, nel campo e all’AziendaTrivelli, una sorta di Cattedrale del Tartufo) sono stati convenientemente alternati dalla balda “Elabora”. Oltre a una migliore conoscenza della cucina marchigiana si è infatti provveduto a saziare i nostri appetiti culturali, nella magnifica, medioevale e rinascimentale Ascoli Piceno e nel suo hinterland. Virtute e canoscenza che saranno serviti alla prossima puntata.
P.S. Probabile che chi si attendeva approfondite non meno che lunghe disquisizioni sul Tartufo (nero) sia rimasto un filino deluso. Ho però preferito non tediare il cortese lettore con pedisseque descrizioni, non certo entusiasmanti e fors’anche noiose (c’è ad esempio lo Scorzone estivo – ma di profumo poco – va un po’ meglio con l’Uncinatum mentre si comincia a ragionare col più pregiato Melanosporum).
Per info: www.truffleandco.it
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2 Una bella gastrogita valdostana

Viaggiare non significa solamente partire per l’Amazzonia o la Papua Nuova Guinea. Si “viaggia” anche facendo il giro dell’isolato di casa nostra o esplorando il territorio di una bella regione come la Valle d’Aosta

Monte Bianco

Monte Bianco

L’editor padrone Pietro mi fa: “Vuoi andare in Val d’Aosta?”. E io: “sì”. E a proposito di andare in giro, l’ho già chiarito svariate volte e non mi stufo di ripeterlo: premesso che non si può mica andare sempre, e solo, in Amazzonia o in Papua Nuova Guinea, si “viaggia” anche facendo il giro dell’isolato di casa nostra, l’importante è quel che guardi e come sai guardarlo nonché ragionarvi sopra. La Val d’Aosta, poi, è terra, anzi montagna, a me cara (salvo Saint Vincent nel cui Casinò de la Vallèe ho consumato alla roulette notti e danèe nonostante la certezza di avere i numeri giusti, che poi lo erano davvero, ma per i padroni delle bische, a quei tempi, nel Belpaese, solo quattro, adesso qualche decina di migliaia, con lo Stato che – come dicono a Genova – ci ha sua convenienza, vabbè pecunia non olet e il Tar che li difende pure).

Una tour leader impeccabile
Per farla breve, come breve fu la gita, giornaliera (ma anche a questo proposito ribadisco che più della quantità conta l’intensità) mi trovo alla milanese stazione metrò di Pagano e, prima di salire a bordo del pullmino, presentandomi conosco l’Alessandra Agostini. Una giovane signora dall’importante origine (Treviglio, patria del grande nerazzurro Giacinto Facchetti, al secolo Fachetùn) e vivace il giusto per risultare proteiforme. Oltre che diva suprema della AT Comunicazioni e quindi organizzatrice della gita per conto dei valdostani, l’Alessandra ha infatti proficuamente operato come tour leader della trasferta, speaker nelle presentazioni e infine supervisor della gita di un cagnetto (tipo quello che – gli over 70 ricorderanno certamente – dirigeva l’orchestra in braccio a Xavier Cugat hombre di quella gran gnocca dell’Abbe Lane) quadrupedino portato a far pipì in Val d’Aosta (ça va sans dire debitamente ingabbiato) da un giovane scriba evidentemente cinofilo (e pure cinefilo, avendo montato una minitelecamera sulla minigroppa del minicane di modo che il miniquadrupede zampettava agile tra i megamonti imitando Fellini).

Tappa a Nus e Gressan
valle aosta fontinaLa gita valdostana agli ordini della balda Alessandra ha avuto come mèta (con motivazioni in prevalenza gastronomiche, né si sarebbe potuto andare anche a sciare, non tanto per la scarsità di tempo quanto per l’autunnale assenza di neve) due località, Nus, poco prima di Aosta, e Gressan, oltrepassata di poco la capitale della francofona valle (per gli sciovinisti sudditi di quel birichino di Hollande, però, tra il monte Bianco e Pont Saint Martin non si parla la loro nobile langue bensì solo un patois, dialetto). E alla romana Augusta (di qui il nome) Pretoria Salassorum, agli amanti del folklore tipico e genuino (anche se pure lì non manca ormai la ciuffa made in China o Vietnam), suggerisco una visita a fine gennaio in occasione della vecchissima non meno che tradizionale Fiera di Sant’Orso. Si divertiranno, e in caso di freddo (garantito) vai con generose trangugiate di Caffè alla Valdostana (quello, per intenderci, che si fa nella tipica Grolla) e/o – quante ciucche – di GrigioVerde (Grappa e Genepy, ok quello della Ottoz, la famiglia di Edy, grande corridore ostacolista).

Vicende palatali…
Forniti consiglio e dati per una gioiosa gita del lettore, non mi resta che narrare quel che ho combinato (sorvolando su una sfortunata visita a una stalla in cui, cadendo a terra, una boascia/cacca di mucca è esplosa come uno shrapnel leopardando i miei jeans con cupe chiazze che non van via nemmeno con la conegrina).
Seguendo passo per passo la già lodata Alessandra, puntuale esecutrice dell’educational inquadrato nel “Progetto Saveurs Campagnardes en route” (sottotitolo in italiano “Percorsi del gusto alla scoperta dei prodotti tipici del territorio”, aggiungo poi che nel programma è presente un Gal media Valle d’Aosta ma non so esattamente di cosa si tratti) la giornata è volata via tra vicende palatali.
Durante la deliziosa sosta a Nus, nella sua Azienda Agricola ‘Genuinus’ (che è parimenti Fattoria Didattica e Agriturismo) Elisa Dorrier “ci ha fatto fare da mangiare” nel senso che – come in un’orchestra uno dirige e gli altri suonano violino e tromba – la nostra ospite comandava e noi pulivamo i ravanelli e/o tagliavamo patate (io). Dopodiché si è pappato.

Un menu da leccarsi i baffi
Menu: Salatini di pasta al vino con confettura di ortiche e toma; Insalatina di patate di montagna, silene, fiori di nasturzio, fiori di senape, fiori ravanello e mele renette; Lasagne di polenta all’achillea, millefoglie con besciamelle alla melissa; Torta delicata alla limonina e menta con crema alla calendula.
Nel pomeriggio, a Gressan, ‘si è conosciuto le realtà’ (solita frase del menga usata dagli inviati della tivù generalista, ma fa fino usarla) delle (altra solita frase fatta) ‘produzioni agroalimentari del territorio’ . E nella bella (che più ‘di montagna’ non si può) Maison Gargantua (seguita poi dalla mia ‘macchiata’ visita nella stalla dell’azienda La Borettaz) si è imparato a ‘fare il formaggio’ (il Reblec, con tanto di caglio e latte scaldato a 40°). Ivo Vierin – che modestamente non ci ha detto di esserne il maggior produttore valdostano – ci ha infine omaggiato delle sue belle ma, soprattutto, buone mele (e io che – con tutta quella pressante pubblicità che fanno – credevo che le mele crescessero solo in Val di Non…).
(mondointasca.org 06/11/2014)

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3 ”ACCADEMIA CUCINIERA” NEL NOVARESE

Ritornando dove già fummo… ”coniò” d’Annunzio, e io torno nelle terre novaresi, Scriba e Scout di milanesi (nessuno è perfetto) Accademici della Cucina
gpb x mondointasca.org del 17/4/2014

Nel novarese ... (Matteo Fini)

Nel novarese … (Matteo Fini)

Allora. dicevo …. “Accademia Cuciniera” nel Novarese …. Corsi e ricorsi temporali e geografici. Nel senso che a distanza di anni e grazie all’amicizia di antichi e veri ‘Amici’, riscopro antichi sapori “manducatori” e mai scordate delizie “bibitorie”. Tra risaie e afrori caseari.

Mi scuso per il titolo, più ermetico di una poesia di Ungaretti, ma la vicenda che passo a narrare è abbastanza complessa e complicata, tra sconfinamenti oltre Ticino, accademie del palato, reminiscenze giovanili, gorgonzola e vini amati dal Cavour.

Provo a spiegarmi. Il Nicola è uno dei pochi amici che annovero a Milano, e giustifico questa mia deficienza con la severità che riservo alla parola amico. Un sostantivo ormai inflazionato e svilito a tal punto da esser scaduto a sinonimo di conoscente. Oltretutto, se si parla di amici, a Milano – laddove più che la Madunina è adorato il dio Danèe – c’è da stare un filino in campana, imperocché per molti anche le amicizie hanno (soprattutto) un valore (economico).

Nicola, meglio di Gualtiero
E sempre a proposito del Nicola aggiungo poi che – dettaglio altrettanto importante – oltre che amico è pure raffinato gastronomo, benché nato a Milano (evidentemente in lui ha fatto aggio la discendenza da genitori ferraresi doc). È infatti noto che i milanesi (e, con tutto il rispetto, tanti altri lombardi, massime i manzoniani brianzoli) non sanno mangiare, anche perché, per loro, più che il piacere del palato conta il quanto costa, col risultato che un buon ristorante è quello caro e un cuoco è valido solo se apparso in tivù. E tanto per fare un esempio, a proposito delle diverse esigenze palatali nel Belpaese, ve lo vedete voi il divino Gualtiero Marchesi ammannire il suo noto risotto condito con foglioline di oro zecchino a piemontesi temprati dalla Bagna Caoda o a romagnoli adusi a sapide braciole di Castrè?

“Gustosa” gita oltre Ticino
A ‘sto punto l’accorto lettore avrà afferrato che, dotato di tanta voglia di vere amicizie e di altrettanto forte aficiòn alla degustazione di cibi e bevande, il Nicola non poteva che arruolarsi nella Accademia della Cucina e, dopo breve militanza, da peòn divenire Arconte (ma lui più modestamente e meno ellenicamente si definisce solo delegato) di un distretto milanese di questo Areopago del Palato.
Dopodiché eccomi apparire in scena: el mè amìs organizza una gita oltre Ticino e io, dotato di una sorta di koinè mutuata in quelle terre, vengo arruolato come giornalista, inviato quasi speciale, della spedizione, con licenza di narrare i miei trascorsi novaresi e commentare le abitudini mangerecce indigene.

Polenta, gorgonzola e vini Novaresi
Ma ahimè tanto ambizioso progetto naufragò. Accadde infatti che, giunti all’Azienda Cà Nova in Bogogno, per commentare i vini all’aperitivo (evviva, riquisimo: polenta e gorgonzola e salàm dlà Dùja, mica quegli orridi canapè surgelati degli alberghi milanesi che se la tirano) la bella anfitriona non meno che brava professional, Giada Codecasa, aveva convocato un “loro” giornalista, (almeno) lui, sì, capace professionista, quindi esperto di mangiari e (massime) di vini. Da cui un mio doveroso silenzio, anche perché cosa mai avrei potuto replicare a un signore che tra un bicchiere e l’altro evidenziava nascosti (almeno a me) profumi di pere (ma non ricordo più quali, forse le William), commentava tannini forse un pò decisi, metteva in guardia da retrogusti talvolta troppo arditi e, financo più bravo dell’Ardito Desio, spiattellava i componenti delle terre moreniche calpestate proprio mentre sorseggiavamo il Sizzano, Ghemme e Fara (n.b. siamo pertanto sulle colline tra i laghi Maggiore e d’Orta, poco più a nord, e le risaie della bassa)?
Finezze cuciniere e chiusa al zabaione

Zabaione ricostituente
A fronte di tanta enciclopedia (e nessuno sappia che a me va già di lusso con l’umile ma busciante Lambrusco mantovano della Cantina Sociale di Quistello) eccomi, dicevo, silente, e parimenti lo fui (ma qui mi zittì la fretta degli accademici vogliosi di una siesta) nell’agape (con gli accademici sempre meglio contarla su bene) officiato alla trattoria Olimpia di Veruno (risotto con asparagi, scaloppe d’anatra con foie gras e patate sautèes, dolce al mascarpone … al quale aggiunsi, come mia rustica progenie suggerisce, una giusta dose di vino per ricavarne ricavato una sorta di buon zabajone). Riportato a Milano dal Nicola (che da gran sior – e ringrazio – m’ha offerto lu magnare e nemmeno m’ha imposto una penale per l’abortita prestazione) non mi resta che narrare (almeno) al cortese lettore ciò che della bevereccia e mangereccia Novara d’antan, dovevo raccontare agli accademici cucinieri.
Quando i “giornali” nascevano a “pancia piena”
Mangiare. Tutti magnificavano (e tuttora accade) la Paniscia ma dopo (parecchie) decine di anni – ultimo tentativo pochi mesi fa in un ristorante di Proh, leggasi Prù – sto ancora qui a chiedermi cosa ci troveranno di buono. E’ invece eccelso il Gorgonzola, ma, incazzoso, come peraltro ogni vecchio, coi modernismi non tollero che oggidì si parli di “dolce” e/o “piccante” (il Gorgonzola è il Gorgonzola e cosa c’entro io se l’Invernizzi inventò per i delicati palati delle signorinette quel melenso paraformaggio chiamato Gim?).
Bere. Se si parla di vino mi viene da ridere gustando i nettari proposti al Nicola e ai suoi adepti: “ai miei tempi” (novaresi), salvo qualche buona bottiglia detenuta dai soliti sciur, si beveva (ricordo ancora una mescita in un vicolo a due passi dal Cantòn di Uri, l’Angolo delle Ore) il “Barberato” – e per descriverne le proprietà organolettiche basta il nome –. Né ho vergogna a confessare che un paio di volte aiutai pure un amico vinaio a creare un doc con la methode “catene” (e gli esperti sanno a cosa mi riferisco). Meglio quindi i “Martini Dry” che, giovine redattore, sorseggiavo copiosamente già a metà mattina al caffè Coccia, con l’amico (e conte) Sandro (Rossini di Valgrande), editorpadrone e direttore della “Gazzetta di Novara”. Lì si faceva il giornale, dopodiché si andava a stamparlo alla vicina tipografia Paltrinieri, tre fratelli sotto le cui scrivanie trovavansi sempre posizionati altrettanti fiaschi di vino ‘a consumo’). Tempo un paio di mesi e cominciai a chiedermi se il fegato avrebbe potuto sopportare quella mia peraltro rispettabile vocazione a divenire scriba.

 

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4 NOVARA IN PARADISO (DOPO 55 ANNI LA SERIE A) Gorgonzola & Biscottini

Amarcord, con pensieri e commenti, di chi visse le lontane imprese footballistiche della squadra di Piola, oggi tornata nell’Areopago del Calcio
gpb per mondointasca.org del 23/6/2011

In gioventù ... cuore granata....

In gioventù … cuore granata….

Una delle quattro famose squadre del “quadrilatero” piemontese di un tempo, è ritornata nella massima serie calcistica. Ricordi di un’altra “era” (sempre calcistica) commenti, avventure, personaggi. Buon cammino, dunque, alla simpatica compagine oltre Ticino

Alleluja, il Novara è tornato nell’Areopago del Calcio nazionale! Oltretutto questa vittoria sportiva è avvenuta (un po’ di patriottarda retorica… neh che aiuta?) nel 150° di quell’Unità del Belpaese che cominciò con un autogol proprio nella “Fatal Novara”, il 23 marzo del 1849: sonora batosta – 1 a 0 e palla al centro – inflitta da SMI il maresciallo Radetzky a quel menagramo del Carlo Alberto (mai che gliene sia andata bene una; avete presente il re Mida?, tutto il contrario).
Una notizia, il “Novara in A”, per certi versi storica perché non si parla di una delle solite “squadre ascensore” (quelle che scendono e salgono frequentemente dalla serie A alla B), al contrario: impantanatasi tra B, C1 e C2, le sono occorsi ben 55 anni per tornare nell’Olimpo dell’italico Balòn. E datosi che in quei lontani Anni d’Oro Pallonari (dal ’48 al ’56) a Novara non solo “Io c’ero” ma andavo pure a vedere le partite degli Azzurri (e in Tribuna d’Onore! mica in curva, mi portava il figlio del dirigente Marmo, che per un po’ fu addirittura C. U. della Nazionale italiana, l’odierno Prandelli! per capirci) eccomi pure io ad aggiungermi a quel profluvio di blablala seguito alla promozione (ne hanno parlato financo Bossi e il Berlusca, vedi Corriere del 16/6 pag. 8, e ha promesso di parlarne persino Platini, il cui nonno emigrò in Francia dalla novarese Agrate Conturbia – quindi niente accento sulla “i”). Comincio pertanto, Consecutio Temporum docet, con un Amarcord e proseguo con commenti su quanto ultimamente letto (o non) e sentito dalla cosiddetta stampa sportiva (e non).

Con l’Umberto (Orsini) pallavolo… sottorete
Novara, “a quei tempi”, aveva all’incirca lo stesso numero di abitanti di oggidì, poco più di 100.000, ma era molto meno estesa (forse qualcuno dormiva in cucina o altri preferivano i letti a castello). Nel tardo pomeriggio, sotto i portici, si officiava il provinciale struscio (chi era già accoppiato andava invece a limonare sull’Allea). Nello scomparso caffè Bertani (lì nacque il Bitter, mica a Milano al Zucca-Camparino in Galleria!); un po’ che una delle padrone-cassiere ci vedeva poco, un po’ che il barman Lino si lasciava facilmente corrompere versando dosi XL di Campari e/o porgendo ulteriori gratuite mescite, chissà quante ciucche presi con la mia vitellonica compagnia! Che la sera si trasferiva a giocare a carte al Barlocchi.
In subordine, fino al ‘58 c’era il casino, ma nella vicina Vercelli, perché Novara e Modena divennero “città cavia” e per nostro disagio le famose Case furono, appunto, “Chiuse” anzitempo (a Novara per sapere cosa avrebbero combinato – nei molti mesi di assenza delle mondine – i soldati delle tante caserme; a Modena c’erano da studiare i cadetti dell’Accademia). E poi c’era il Liceo Classico ‘Carlo Alberto’ (che, vedi sopra, mi portò tanta sfiga da ritrovarmi così bocciato da dover ripiegare sullo Scientifico) laddove con l’Umberto Orsini (ancorché bassetti, passavamo ben eretti sotto la rete) inventammo una squadra di pallavolo e la chiamammo Squirrel.

Gli anni d’oro di Piola, Arce e Arangelovich
Ah, il Novara (nel senso del Calcio) “a quei tempi”! Come già chiarito, ancorché tenessi per il Toro (che bella una vita trascorsa da bastian contrario) non perdevo una partita degli Azzurri, su tutti il mitico Silvio Piola (che però era di Robbio Lomellina, provincia della rivale “Varsè”, Vercelli). E con Piola ricordo ancora tanti altri giocatori: un mediano, Ambrogio Baira di Germignaga (località, a quei tempi, per me sconosciuta quindi esotica); il terzino De Togni di Bondeno, detto il Muto (non parlava però menava come un fabbro ferraio); una mezzala matta, Arangelovich, sedicente o forse no (era da poco finito il caos della guerra) figlio di un senatore serbo; e ricordo anche il centravanti paraguayo Dioniso Arce, un filino selvaggio come deve esserlo ogni genuino Guaranì. E del Novara ricordo ancora uno dei presidenti, il comm. Francescoli (detto Sartisoda: aveva il volto pacioso e spazioso dell’omino della reclàm di un famoso aperitivo). Grazie a lui capii già allora perché un tizio caccia fuori i soldi e va a fare il presidente (quelli che l’avv. Onesti del Coni definiva erroneamente ‘ricchi scemi’) di una squadra di Pallone. E mi spiego. Titolare di una modesta fabbrichetta di calzature, il sullodato commenda di provincia non era nessuno, quando mai avrebbe potuto presentarsi davanti a un usciere di un ministero; ma a quel punto pensò bene di acquistare la squadra e mettere sul biglietto da visita “Presidente del Novara”, dopodiché partì per Roma e al ritorno si mise a fare le scarpe a mezzo Esercito italiano.

Con la “sudditanza psicologica”, arriva la serie B
E grazie al Novara capii anche, fin da piccolo, e senza l’alto magistero di Bossi, che esisteva una “Roma Ladrona”. I fatti (anni ’50). Il Novara e la Roma giocano un match decisivo, chi perde va in B. E perse (ovviamente) il Novara, mercè un rigore a favore della Città Eterna inventato (si dice) di sana pianta da un arbitro, tale Pera, che ancora oggidì non si sa bene se fischiò il penalty per esecranda fame dell’oro o solo per quella tabe (che esiste, eccome se esiste) chiamata “sudditanza psicologica”. Superfluo precisare che la ‘aficiòn nuàresa’ arrivò pure a progettare una squadristica punizione punitiva nei confronti del Pera, ma in questo frangente fu stranamente frenata da un dirigente e generoso mecenate, l’unico o uno dei pochissimi novaresi che oltre alla passione aggiungeva la lira. Mi riferisco all’ing. Bossetti, a me caro non meno che indimenticabile, che prima dello “scandalo Pera”, in occasione di un precedente (a lui non gradito) arbitraggio aveva avuto con la (a quei tempi detta) “giacchetta nera” uno scambio di idee conclusosi con 7 giorni di prognosi (si indovini di chi). Quelli “erano tempi” (adesso le partite non si fischiano, si comprano).

Di nuovo in “A”. Commenti e dissensi
Ma eccoci al presente. Per commentare che sul Novara “tornato in A”, e sulla città, ne ho lette di tutti i colori. Siano comunque perdonate le dimenticanze o l’imprecisione di molti cronisti: poareti, non potevano trasformarsi tout court in ‘novarologi’ dopo tanto oblio della squadra in B, C1 e C2, il De Agostini ormai divenuto una multinazionale e le varie non meno che spensierate metamorfosi della locale Banca Popolare (dai manager mica tanto furbi: posso ben dirlo io che ne detengo un po’ di azioni, “scese” – si fa per dire – da 21 a 1,56 euro, quindi sinonimo di dieci piani di morbidezza …ma va a dà via el…). Qualche scrivano (anzi tutti, salvo il ‘granata’ Aldo Grasso, eccellente critico tivù del Corriere) si è ad esempio dimenticato di ricordare le vere grandi glorie calcistiche novaresi. Mi riferisco al mitico “quadrilatero”, inizio ‘900, Viej Piemont, composto da Novara, Vercelli (i Bianchi), Alessandria (i Grigi) e il Casale (non solo i Neri, come scrive Grasso, bensì i Nerostellati, con quella bianca stella sulla maglia di pece). C’è poi chi (Alberto Costa, Corriere) vede tanta “milanesità” in Novara (ad esempio con il dialetto, ma quando mai!) a tal punto da accennare a una Grande Milano. Vabbè, Novara appartenne fino al 1734 a Milano (il castello, con bel fossato, a lungo sciupato come prigione, è detto ‘visconteo’). Ma nei quasi tre secoli che seguirono i Savoia la trasformarono in una grande caserma di confine, vicina, sì, a Milano, che però fece dei novaresi gente dalla ‘testa border line’, di frontiera, né carne né pesce, altro che lombardo-milanese.

Feste con Triscotti, Gorgonzola naturale. La Paniscia, no
E se va bene per il lavoro o per lo shopping (solo una mia antica prozia andava dalla modista a Torino) per il resto Milano non attira più di tanto il novarese (non certo taccagno ma nemmeno ‘sciur’, eppertanto se si parla di tavola lo zafferano costa troppo, niente Risotto alla Milanese). Né si può dire, alla faccia dei soli 40 e rotti chilometri che separano le due città, che Novara sia ben collegata a Milano: per portarti alla stazione Centrale un normale treno impiega, minimo, 42 minuti; l’autostrada da anni è quel che l’è (sovente entrare a Milano può costare lunga coda); e la strada statale, salvo qualche pittata e un paio di rotonde a Sedriano è identica a quella che percorrevo decenni fa (ovvio: più si viaggiava male sulla strada statale, più si prendeva l’autostrada di Agnelli, n’est pas?).

Ma perché tante chiose, distinguo, precisazioni? Si faccia invece festa, orsù. Il “Nuàra l’è turnà in serie A” (ma se non ci metteva i soldi un Patròn dal cognome un filino terùn, forse sarebbe ancora a metà alfabeto?). E imbandita la tavola del ringraziamento la si arricchisca con i locali e gustosi Biscotti (ma mica gli industriali Pavesini, ancorché il mio babbo vi fu manager, si gustino gli artigianali Camporelli del mè amìs Fasola, che adesso ha pure inventato gli ancor più tostati Triscotti). E non manchi, pare ovvio, il sapido, magnifico Gorgonzola, beninteso quello naturale (stoltamente detto piccante). Ma la Paniscia, per favore, no. Dopo averle concesso innumerevoli prove d’appello per una sessantina d’anni, se non più, ho definitivamente sancito che davvero “non è cosa”. Con tutto il rispetto per i Nuarès. Tornati in serie A.