Laddove partendo dalla cinematografia (Jamòn Jamòn) si attraversa la filologia (prosciutto nei vari idiomi) per giungere sulle tavole dei ristoranti di Spagna …
per mondointasca.org del 2/11/10
Presente in ogni Cucina e in tutte le “lingue”: jamòn, presunto, jambon, pernil, schinken, ham e chissà quante altre. Un minitrattato (quasi) importante sulle tante versioni e sui molti utilizzi del prosciutto spagnolo, re di tavole e pellicole cinematografiche …
Talvolta la cinematografia si abbina alla gastronomia: memorabile La Grande Bouffe (La grande abbuffata). E grazie al noto film di Bigas Luna – 1992, interpretato da una eccellente Stefania Sandrelli nonché da Javier Bardem e da una giovanissima ‘Pe’ Cruz – anche chi non si è mai seduto a un desco spagnolo sa che jamòn vuol dire prosciutto (ovviamente crudo, in Spagna quello cotto è poco richiesto). Una parola, per inciso, che aiuta a notare la diversità linguistica negli idiomi neolatini per indicare la coscia del maiale, salata e stagionata in luogo fresco ed aerato. Solo tra lo spagnolo e il francese esiste una certa affinità (jamòn e jambon) mentre si spazia dal portoghese presunto al catalano pernìl, dopodiché il prosciutto diventa ham in inglese, schinken in tedesco e nelle lingue slave prst (curiosa la somiglianza tra l’italiano e lo slavo: tolte le vocali al nostrano prosciutto si ottiene quanto degustato a Belgrado, Sofia, Mosca).
Spagna regina: in qualità e prezzi
In Spagna il jamòn – con le angulas (anguille neonate o cee), la perdiz roja (pernice rossa) e i percebes (balani o peduncoli carnosi, frutti di mare pericolosamente pescati nella risacca delle scogliere atlantiche) – esprime il massimo del ‘gozar de la vida’, quell’arte tutta spagnola che insegna come sfruttare al meglio le opportunità accordateci durante il soggiorno terreno. Contrariamente alla ‘prosciuttistica’ italiana – limitata al prodotto di un solo tipo di maiale e circoscritta a pochi marchi (dettano legge) ‘Parma’ e ‘San Daniele’, cui si può eventualmente aggiungere soltanto il poco commercializzato e casareccio prosciutto umbro-toscano – la Spagna propone zampe suine a gogò, con un’amplissima offerta a portafogli e palati. Tanto per stare sul concreto, nei numerosissimi “Museos” o “Mesòn” o “Catedrales” del Jamòn disseminati dai Pirenei alle Colonne d’Ercole, il costo di un chilo di prosciutto varia dai 10 ai 200 euro (escursione abbastanza ampia, se si pensa che nel Belpaese il costo non è inferiore alle 40 e superiore, nel caso del culatello, ai 50 euro).
“Pata Negra”, re dei prosciutti iberici
Tanta differenza di prezzo si spiega con le svariate qualità di jamònes, prodotte da due differenti razze suine: il ‘pata’ (zampa) ‘blanca’ e il ‘pata negra’ (e si parla di coscia, la zampa posteriore, mentre la anteriore è detta paletilla). Il pata blanca é il comune maiale, identico a quello nostrano, dalla cute rosa e dal peso ragguardevole. Per pata negra si intende invece il ‘cerdo (maiale, che in spagnolo è ricco di ulteriori denominazioni: cochino, puerco, marrano, lechòn, chancho nel sud America) iberico’, una razza suina autoctona (come lo sono la capra selvatica e il ‘toro bravo’ da corrida) per i cui jamònes gli spagnoli impazziscono (e arrivano a indebitarsi, se si considera che un etto dal salumaio costa sui 20 euro).
Per non tediare il lettore con freddi dettagli anatomici e istologici, basti segnalare che il sullodato ‘cerdo iberico’, alias pata negra, é sommariamente paragonabile a un incrocio tra il normale maiale (il già citato pata blanca) e il cinghiale (che, per inciso, antàn i ricchi italiani pagavano profumatamente per accopparlo, mentre ora – preoccupantemente riprodottosi – é sottoposto a taglia come un qualsiasi Jess il bandito). Ma contrariamente al pata blanca, la carne magra del pata negra è attraversata da strisce di grasso (in spagnolo vetas) per la disperazione delle signore, a dieta sempiterna, impossibilitate a separare la demonizzata parte ingrassante da quella innocente, sapida e rosé: grosso errore giacché, giurano i jamonologi iberici, il grasso del pata negra non solo non favorisce il colesterolo, ma lo elimina.
Boschi e ghiande in quantità: animale super
Completati i suesposti identikit suini, le due anime del jamòn spagnolo si deprezzano o si sublimano dipendentemente dall’habitat e dall’alimentazione. Un prosciutto ‘serrano’ (termine che affascina il turista italiano in un bodegòn spagnolo e lo appaga nel pronunciarlo) altro non è che un maiale, di ambo le patas, allevato e nutrito in montagna: niente di eccelso, quindi, ma almeno una buona garanzia che non si tratta del solito pollo cresciuto in batteria al caldo della pianura. Habitat, quindi: si dice che per dare un ottimo jamòn il maiale debba disporre di almeno un ettaro di collina ove grufolare in grazia di dio (ovvio che tale benefit spetti soltanto al più nobile e ripagante pata negra). E soprattutto alimentazione naturale: segnatamente la ghianda (bellota) una vera e propria ambrosia per il quadrupede più disprezzato ma altrettanto degustato nel mondo (quantomeno cristiano, escludendosi, ahinoi – e non sanno cosa si perdono – islamici e israeliti). Un pata negraesclusivamente ‘de bellota’ – quella della quercia (encina) dà un sapore più dolce al jamòn, mentre quella del sughero (alcornoque) lo rende un filino più amaro – per un gastronomo spagnolo rappresenta una sintesi di Mecca, Nirvana e Shangri Là del palato. Meno entusiasmante, quindi meno costoso, risulta invece un pata negra alimentato con bellota e ‘recebo’, mangime. Siamo comunque e sempre al top del gastronomico piacere.
Tra le capitali spagnole del prosciutto
Quanto alle doc, Jabugo – anonima e incolore cittadina andalusa – è considerata la capitale prosciuttesca spagnola, sinonimo geografico di prelibatezza, ancorché la maggioranza dei maiali pata negra provenga dalla vicina, georgica Estremadura (che ‘esporta’ anche a nord, a Guijuelo, nella provincia di Salamanca, altro noto toponimo del pata negra). Altre zone votate al prosciutto, ma solo di pata blanca, la granadina Alpujarra, sotto la Sierra Nevada con vista sul Mediterraneo(la fresca e secca aria a oltre mille metri di altitudine, rende prelibata una produzione di tutto rispetto) nonchè la aragonese Teruel.
A titolo di curiosità, il prosciutto alpujarreno di Trevelez è figlio di una immigrazione: cacciati i ‘moriscos’ (già poco inclini, come tutti i bravi musulmani, a mangiar porco) che si erano rifugiati nelle impervie valli dopo la conquista di Granada da parte dei Re Cattolici, i successori di Filippo III pensarono bene di ripopolare l’Alpujarra con genti basche che si portarono appresso orde di porcelli.
Qui giunti, al lettore non resta che raccogliere i risparmi, volare in Spagna e ‘ir de tapas’ (girare bar e bodegas degustando assaggi). Richiesta qualche fetta di ‘pata negra de bellota’ (rigorosamente tagliata a coltello, me racumandi) potrà anche ritrovarsi meno ricco. Ma avrà appreso che anche il più peccaminoso palato può assaporare una sinfonia.
Ahinoi non immortale.
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