1 GUJARAT, A DIU, RICORDANDO I GRANDI NAVIGATORI PORTOGHESI 1
UN’ISOLA DEL MARE ARABICO, PER PIU’ DI 4 SECOLI SONNECCHIANTE AVAMPOSTO DI TRAFFICI E COMMERCI DELLE TRADIZIONI MARINARE LUSITANE
La storia è ricca di sorprese. Nei grandi ‘passaggi’ coloniali (Europei verso il mondo) ecco la memoria di una piccolissima colonia del Portogallo nel grande continente indiano
Bizzarra la storia di Diu. Snella isola (lunga 11 chilometri, larga solo 3) bagnata dal Mar Arabico, si distende lungo la costa del Gujarat, Stato dell’India occidentale, da cui è separata da uno stretto canale; ciò nonostante con la terraferma – geografia a parte – ha sempre avuto poco da spartire.
Parsi, Ottomani, Portoghesi e Indiani. Tutti a Diu
Nel VII secolo si rifugiarono a Diu i Parsi, seguaci di Zoroastro, cacciati dalla Persia dagli invasori arabi dell’Islam, che successivamente, divenuti esperti marinai, fecero dell’isola un caposaldo di commerci. Qualche secolo dopo Diu fu base navale degli Ottomani, per il controllo dei traffici nel Mar Arabico settentrionale, fin quando, agli inizi del XVI secolo, le battaglie combattute nel Mediterraneo tra cristiani e musulmani subirono repliche nell’oceano Indiano tra Turchi e Portoghesi. Vinsero questi ultimi e Diu, per secoli colonia portoghese, divenne indiana solo nel 1961, ma invece di far parte del Gujarat costituisce con Daman (altro insediamento portoghese del Gujarat) una ‘Union Territory’ amministrato da Delhi (mentreGoa, terzo possedimento lusitano in India, è capoluogo di un piccolo Stato dallo stesso nome).
Alla ricerca di porti per i traffici marittimi
La Diu portoghese trae origine dall’ingegno del principe Enrico il Navigatore, creatore, a Sagres, poco distante da Cabo Sao Vicente, all’estremità occidentale dell’Algarve, di una eccellente Scuola di Navigazione. Da quella sorta di Capo Canaveral ante litteram salparono grandi scopritori marittimi, l’Europa dell’imminente rinascimento si allargava alla ricerca di novi orizzonti, l’uomo moderno voleva sapere. Nel 1488 Bartolomeo Diaz doppiò il Capo di Buona Speranza. Nel 1500 Cabral scoprì il Brasile ‘grazie’ a un tempesta che nell’Atlantico dirottò le sue navi: era infatti diretto sulle coste dell’India visitate per la prima volta (il 18 maggio 1498) da Vasco da Gama (sbarcato a nord di Canor aveva preso contatti con il principe Samorin). Nel 1531, navigando nel Mare Arabico alla ricerca di porti per fini commerciali (con un potenziale umano e militare inferiore alla Spagna, il Portogallo si dedicò più ai traffici che alle conquiste) di fronte a Diu una flotta portoghese si scontrò ed ebbe la peggio con navi turche accorse in aiuto del sultano del Gujarat.
Nel sedicesimo secolo, ecco gli uomini di Lisbona
Ma solo quattro anni dopo, approfittando dei ricorrenti litigi del sultano con l’imperatore moghul, i portoghesi presero possesso di Diu trasformandola in una colonia – così lontana da Lisbona – destinata a sonnecchiare per più di quattro secoli. Una sorte che Diu condivise in India con Daman e Goa, e in Asia con Macao e Timor, pressoché dimenticati avamposti di un impero meritevole di maggiori attenzioni (ma la storia, si sa, non fa sconti eppertanto le sorti della più potente e popolata Spagna hanno fatto aggio su imprese, scoperte e conquiste del vicino di casa iberico; Ubi Maior …). Una colonia sonnacchiosa, Diu, un posto davvero tranquillo, come pochi altri al mondo, se si pensa che ai colpi di colubrina sparati nel 1535 solo nel 1961 fece eco qualche sparo durante la ‘campagna di liberazione’ dell’isola. Da tanto progettavo un sopralluogo a Diu. Come può, infatti, un accanito cultore della storia – non parliamo poi di quella delle grandi nazioni europee e delle loro scoperte e conquiste coloniali – non andare a conoscere un remoto angolo di Asia per più di 400 anni portoghese? Remoto, perché a Diu ci finisci soltanto se progetti una gita nel Gujarat; ben più facile fu andare in ferry da Hong Kong alla portoghese Macao, e lì aver giustiziato, di primo mattino, una bella bottiglia di Mateus Rosè, il vinello lusitano che inondò il mondo in seguito a una ben congegnata operazione di marketing.
Alla ricerca di tracce lusitane
A Diu, 25.000 abitanti, ancorché siano trascorsi solo 51 anni dal passaggio dei poteri, non abbondano molte tracce del passato portoghese, salvo alcuni validi monumenti, qualche vecchia casa, alcune scritte. Occorre ad esempio molta buona volontà e pazienza per trovare (ovvia la base della ricerca, intervistare gli over 60) chi parli la lingua di Vasco da Gama (beccato un anziano bottegaio, mi ha presentato un coetaneo nato addirittura nell’ex portoghese Mozambico eppoi trasferitosi sull’opposta sponda dell’oceano Indiano). E se si parla di frivolezze, oltre alla scomparsa della salutare Siesta (peraltro definita da Camilo Josè Cela lo ‘Yoga Iberico’ e in India basta e avanza lo Yoga locale) risulta sconosciuto il sullodato Mateus Rosè ancorché in città abbondino botteghe e bar dotati di alcolici di ogni tipo, perché a differenza del ‘confinante’ Gujarat, l’isola non è ‘dry-secca’; si beve a gogò per i piaceri dei turisti in arrivo dal vicino Stato ‘proibizionista’.
Monumenti dell’ex colonia portoghese
Scomparsi i portoghesi e i loro ricordi dei traffici e commerci di un tempo, Diu campa di pesca e turismo balneare; romantici tramonti a Sunset Point Beach e a 7 chilometri dalla città, nuotate di fronte alla spiaggia di Nagoa dotata di buoni alberghi (info: chi va in ‘bassa’-stagione, contratti; può spuntare financo un bel 50% di sconto). Uniche industrie, una distilleria di liquori (Rum dalla canna da zucchero) per i ciucchi localie del confinante Gujarat e un’azienda di raccolta del sale. Da visitare, nel nome di Luis de Camoes, cantore della gloria del Portogallo nel poema Lusiadas? Attraversando le mura sotto la rossa Porta Zampa (cappella con la Vergine e il Bambino, 1702), si procede verso l’estrema punta dell’isola per ispezionare il possente Forte (1535) ammirando scudi del Portogallo, bastioni, fossati, palle e cannoni, la chiesetta di Santiago Apostol (patrono della non amata Spagna, mah), il tutto all’ombra di un faro (visibile da ben 32 km). A poca distanza, verso la terraferma un’isolotto a forma di nave, il munito Fortim do Mar ex prigione. Non può mancare una chiesa dei Gesuiti, Saint Paul, del ‘600 eppoi rifatta, neoclassica, dopo l’espulsione del troppo intrigante Ordine. Dei Francescani è invece la Saint Francis of Assisi (1593) trasformata in ospedale mentre la Saint Thomas Church è divenuta il Diu Museum (vale un sopralluogo di un quarto d’ora). Lascio Diu di prima mattina e provo a buttar lì un Bom Dia. Nessuno mi risponde.
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2 INDIA, GUJARAT, DAI TEMPLI AL DESERTO 2
Inizia una gita in minibus nello Stato ‘gandhiano’, ai confini occidentali, tra natura, templi e culture variè (non solo hindu, pure Islam e British Empire)…
gpb x mondointasca.org del 5/4/12
Grande quasi come l’Italia e con lo stesso numero di abitanti, lo stato del Mahatma Gandhi (uno delle molte “Indie” dell’Unione) vanta splendide spiagge sul Mare Arabico, ampi deserti al confine col Pakistan. Nelle città e nei villaggi: vacche sacre e scoppiettanti motorette
Appartenente con altri 27 Stati al Bharat, Unione Indiana, il Gujarat conta molto nelle vicende della repubblica federale (e più popolata democrazia del mondo): grande due terzi dell’Italia, conta lo stesso numero di abitanti e oltre a potervi vantare la nascita di Gandhi si segnala come terra di frontiera. Là, al confine con il Pakistan, qualche decennio fa tra induisti e musulmani esplosero guerre e tragiche violenze – ormai sopite – tanto frequenti nei conflitti religiosi (e dire che da queste parti abbondano pacifisti e pure animalisti che si tappano il cavo orale per non deglutire manco un moscerino, India misteriosa).
Sempre più visitatori nel Gujarat
New entry degli itinerari turistici indiani (e per certo aumenterà i visitatori, almeno dal Belpaese, visti i recenti e diversi problemi coinvolgenti civili e soldati italiani nell’Orissa e nel Kerala) il Gujarat non offre soltanto una full immersion nella storia gandhiana. Oltre a bei templi e luoghi di culto (secondi solo ai monumenti del classico itinerario in India, Delhi, Agra e Jaipur) la regione propone chicche della natura (un deserto, salato e non, quei pochi leoni asiatici che restano ed esotiche spiagge sul Mar Arabico) nonché città non grandi e dai nomi insignificanti, ma storicamente intriganti, per un passato prossimo in cui convissero ben tre culture (l’induista, la musulmana e quella british imperial della regina Victoria).
Ahmedabad dei Templi
La gita in minibus (1.700 i chilometri percorsi, strade o paranormali o da disperarsi) ha avuto inizio e fine ad Ahmedabad, metropoli ormai non più capitale ma pur sempre la più popolata del Gujarat (chi vagamente dice 5 o 6 e chi 8 o 9 milioni di abitanti; meglio non domandare, d’altro canto se lo sviluppo demografico non è fuori controllo poco ci manca). Da qualche decennio la politica e l’amministrazione dello Stato si sono trasferite nella vicina Gandhinagar, 200.000 persone, di cui le più brave e fortunate alloggiano nei moderni e pregiati edifici pubblici e privati disegnati da due esimi architetti indiani allievi di Le Corbusier.
Al peraltro non grande merito di costituire il traguardo di partenza e arrivo della spedizione, Ahmedabad non può aggiungere grandi ‘highlights’ (interessanti ma non esaltanti, un paio di moschee, un tempio hindu– e lì si comincia ad affrontare nomi che più complicati non si può, tipo Swaminarayan – e uno giainista, sulle placide acque del Kankaria Lake realizzato nel ‘400).
Gandhi, nei luoghi e nell’aria
Fanno però eccezione due eccellenti visite di differente motivazione. Il “Calico” Museum of Textiles varrebbe da solo uno stop ad Ahmedabad per il fascino dei tessuti, antichi e moderni, provenienti da tutta l’India, esibiti nel regale palazzo della Sarabhai Foundation.
Al Sabarmati Ashram (posto, eremo, comunità di meditazione della vita hindu) comincia la conoscenza di Gandhi destinata ad approfondirsi in altre località del Gujarat: da Amhedabad, nel 1930, il Mahatma, grande anima, iniziò quella ribelle quanto pacifica Marcia del Sale (180 km a Dandi, sulla costa) che all’impero inglese fecce più danni di una battaglia perduta.
Autisti indiani: meglio di Alonso!
Partiti da Ahmedabad basta poco per capire che in India la “media oraria” è (astrazione facendo dalle strade) un concetto irreale datosi che, non solo in città, si guida angosciati da 2 incombenti X, incognite, per non dire pericoli: lo spuntare di una vacca ‘sacra’ godente religiosa precedenza (e se la eviti puoi però tirar sotto un pio cittadino che civicamente ne cura l’incolumità) e l’ingombrante apparizione di un minitaxi aliasautoriksciò proveniente dal nulla come una zanzara. Una sola cosa è comunque certa: in India il più imbranato degli automobilisti vale 10 Fernando Alonso quanto a prontezza di riflessi (e un carattere – non solo gli chauffeurs – a dir poco invidiabile: tutti ti salutano, sorridono, ambiscono essere fotografati al tuo fianco, da cui il dubbio se è forse meglio campare un pochino meno ricchi).
Donne rese belle dai “vegetable colours”
Dopo poco più di 120 chilometri, superato qualche cammello trainante carri agricoli, si arriva a Patan per la visita del Rani-Ki-Vav, che la guida-cicerone e le guide scritte si ostinano a definire “un pozzo a gradini” mentre (arte ed estetica prevalgano su vicende idrauliche) trattasi di un magnifico, quasi millenario tempio hindu scavato sottoterra anziché all’insù. E a Patan, con una sosta in atelier ovviamente rinomato e pluripremiato – in questo caso per i Sari di seta Patola dai bei vegetable colours – inizia pure la canonica liturgia, con ascendente shopping, della visita ad artigiani ed artisti (peraltro molto dignitosi e mai tampinanti all’acquisto, l’esatto contrario dei suk arabi). Risaliti sul minibus, dopo una mezzoretta a scansare lattifere e taxi-zanzare, ecco a Modhera lo splendido Tempio del Sole (fianco a, questo sì, un ‘pozzo – meglio dicasi – bacino a gradini’). Parimenti all’altrettanto noto (e contemporaneo) Konark Temple nell’Orissa (per un po’ probabile Off Limits per i viaggiatori italici), il giorno dell’equinozio i primi raggi dell’alba fendono questo ammirevole monumento di Modhera per illuminare Surya, dio del Sole. Dall’arte hindu si procede verso la natura, nel deserto (nella prossima puntata, un safari ad asini selvatici).
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3 GUJARAT, LEONI ASIATICI, TEMPLI E NOTTI DA NABABBI 3
Tra leoni di differente criniera (da quelli africani) a templi visitati dopo lunga scarpinata e notti ‘da nababbo’ in vere (ex) magioni di Nababbi … è il Gujarat, bellezza…
gpb x mondointasca.org del 18/4/2012
A zonzo nelle città e cittadine del Gujarat, fra templi dalle scalinate altissime, musei con auto di lusso, alberghi ex palazzi preziosi di Maharajà ricchissimi. Con la speranza, delusa, di incontrare il famoso “Leone Asiatico”
Giunto al quinto giorno il viaggio nel Gujarat prosegue piacevolmente dopo aver lasciato alle spalle i due quasi millenari templi di Patan e Modhera, gli Asini selvatici nel Little (piccolo) Rann (deserto) of Kutch, l’infinita distesa di sale nel Rann più grande (popolato da antiche tribù esperte in un ancestrale artigianato) e nel capoluogo del Kutch, Bhuj, bei palazzi (uno fu il set di un importante film di Bollywood), purtroppo colpiti dal drammatico terremoto del 2001(7,9 della scala Richter, uno sfacelo che devastò financo la morfologia del territorio).
Tracce coloniali e dimore “da” Maharajà
Arrivati al punto più nord-occidentale della spedizione (un centinaio di chilometri di deserto e si entra nel Pakistan) si punta a sud-est, nella zona del Gujarat più popolata e ricca (non certo di soldi ma di possibilità di sfamarsi: la terra è generosa, abbondano cereali, frutti, ortaggi, si trova sempre qualcosa da accompagnare al Chapati, versione indiana della gloriosa, romagnola Piadina). Circa 250 chilometri da Bhuj a Gondal, stop a Rajkot, capitale di un opulento principato, poi sede di importanti uffici amministrativi coloniali (nel museo voluto a fine ‘800 dal colonnello John Watson in stile che più vittoriano non si può, potrebbe mai mancare la statua della Queen? Certo che no) e infine temporanea residenza di Gandhi (visita della casa, tanti indiani in posa per foto ricordo). A Gondal (100.000 abitanti) ex capitale di uno staterello (1000 chilometri quadrati) governato dai Rajput Jadeia (riporta una guida: casta di guerrieri hindu un tempo dominatori dell’India nord-occidentale), le ricchezze non fecero certamente difetto. Una prova? Due. Prima di essere alloggiato in un deluxe Palace che nel XIX secolo ospitò potenti e vip in deferente visita al Maharajà Bhagwat Singhji (e adesso accettano pure me, cosa non fanno i ricchi per campare) vengo invitato a visitare l’adiacente garage-museo della Real Casa e mi imbatto in una cinquantina dei modelli più costosi delle case automobilistiche mondiali.
La preziosa “pancia” dell’Aga Khan
E visitando al Naulakha Palace il museo con memorabilia di usi e costumi nell’India islamica, scopro la veridicità di quella che ai miei tempi si riteneva una balla (che “l’Aga Khan valeva tant’oro quanto pesava”, e chissà che solo per questo minimo dettaglio Rita Hayworth si maritò col figlio dell’Aga, Karim, quello della Costa Smeralda). Ammiro infatti la bilancia certificante (ultima celebrazione,1934) la pesantezza del locale Maharajà con contestuale trasformazione di carne e ossa in più concr
Scalinate fino al cielo
‘Highlights’, attrazioni locali: nel policromo mausoleo (Mahabat Maqmara) di metà ‘800, un gran bel mixage di architettura indo-euro-islamica; all’Uparkot Fort si arriva in salita per poi scendere in due plurisecolari pozzi a gradini eppoi l’attività fisica prosegue con il giro della possente muraglia; a Girnar Hill, distante 10.000 (pure irregolari) gradini di pietra, vorrà recarsi, ad ammirare natura e misticismo, chi non ha già previsto (solo 7200 gradini) la scarpinata all’ancor più importante santuario Giainista di Palitana (vedi avanti). Dopo un elefante (di probabile ‘impiego turistico’) avvistato in una strada di Ahmedabad, alcuni cammelli (ad ‘uso agricolo’) in campagna e gli entusiasmanti Asini Selvatici rincorsi nel Ranno of Kutch, i miei contatti con la zoologia del Gujarat proseguono nel Sasan Gir National Park alla (possibile) scoperta delPanthera Leo Persica o Leone Asiatico (da non confondersi con il Panthera Leo Leo alias Leone Africano).
Un Leone (asiatico) con voglia di “privacy”
Un tempo comune dalla Siria all’India orientale, riconoscibile per la criniera meno folta ma più espansa, il leone detto anche del Thar sarebbe scomparso (ne erano rimasti 12) se all’inizio del secolo scorso l’ecologo (ma in precedenza ne aveva accoppati parecchi) Nawab/nababbo di Junagadh non avesse istituito questo Parco. All’attuale anagrafe si contano 440 leoni e leonesse, tutti assai restii a farsi vedere (voglia di privacy, prole a cui pensare, problemi di prede, sempre più rare, e il leone asiatico mangia solo carne fresca, mica l’africano che assente la carne fresca non disdegna le carogne). Foto, quindi niente – meglio gli Asini del Rann dei Leoni del Gir – ricorro alla fantasia (non erano ubicati in India quei salgariani racconti di cacce dall’elefante e tigri zompanti?) non senza dubitare sui safari turistici rompenti le balle agli animali (non è forse meglio andarli a vedere in un – comodo e spazioso – zoo, o in subordine ammirarli mediante belle foto in 3D?).
Templi e scale, di fronte al Mare Arabico
Dalla natura alla fede, al tempio hindu di Somnath, una sosta dovuta per diversi motivi: la millenaria storia (è stato ricostruito almeno sette volte) del ‘complesso’ monumento, così come lo è tutta l’architettura hindu; il lingam (simbolo fallico) di Shiva, oggetto di enorme culto non solo locale; la bella posizione su una spiaggia, da cui, finalmente, il primo sguardo sul Mar Arabico. Dalle acque di questa parte dell’oceano Indiano approdarono i portoghesi a Diu – raggiunta dopo lo stop a Somnath – una delle tre località coloniali lusitane in India (tanto importante da dedicarvi tutta la prossima puntata).
La notte noble and snob di Gondal è rivissuta a Bhavnagar al ‘Nilambag Palace’, 1859, qui invece del museo delle regie vetture è esposta una carrozza del treno usato per le gite del Maharajà. Oltre la augusta dimora, di due Museums più che il Gandhi Smriti si consiglia di soffermarsi al Burton, solo una vecchia e polverosa biblioteca di arredamento assai coloniale, ma quanto profumo di British Empire. E da Bhavnagar il minibus mi porta a Palitana, una sorta di Capo Canaveral perché di lì comincia l’ascesa dei pellegrini Giainisti ai non so quanti veneratissimi templi costruiti in più di dieci secoli sull’altura di Shatrunjaya. La distanza (ovviamente coperta cunt i scarp de tènis, perché da giovine zompai fino alla Capanna Margherita, Monte Rosa, eppoi quei 50 euro di trasporto in portantina, quando mai! )? Non so quanti metri né il dislivello, mi basta il numero dei gradini eliminati in circa quattro ore tra un banfone e l’altro: 3.500, ovvio idem al ritorno, da cui ‘circa’ 7.000, quando si dice l’acido lattico. Da Bhavnagar ad Ahmedabad, con breve sosta a Lothal (scavi e museo di 4.000 anni fa, prima che quei conquistadores degli Ariani approdassero in India dalla Persia a creare quella tanto chiacchierata razza (detta anche Caucasica) celebrata dal dottor Goebbels (oltretutto nella vicenda degli Arya era già compresa pure la svastika). Fine della gita nel Gujarat, India occidentale (sul Mare Arabico e ai confini col Pakistan). eti chili d’argento: che nella citata performance fu graziosamente ceduto ai poveri (si spera Harijan, i ben noti “intoccabili”, fanalino di coda nella classifica Hindu delle caste). Il tempo di constatare che ormai gli unici Maharajà rimasti al mondo sono i pedatori del Calcio (ma forse Messi e Ronaldo valgono più dell’oro che pesano) e si arriva a Junagadh. Un’altra delle città ‘medie’ (circa 200.000 ab., non pochi, ma siamo in India) che rendono valido un tour nel multietnico Gujarat(nei frangenti della spartizione il Nawab-nababbo di Juanagadh avrebbe annesso il suo ministato al Pakistan, ma la maggioranza hindu disse no e lo cacciò).
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4 INDIA, GUJARAT, ASINI E DESERTO SALATO 4
Il Rann of Kutch, inquietante deserto salato ai confini con il Pakistan, città di provincia capitali di staterelli di nababbi e mahrajà, Hindu, Islam e British Empire
gpb per mondointasca.org del 12/4/12
Gujarat, India….. Asini e Deserto salato….
Assieme ai simpatici quadrupedi, alle meraviglie del Deserto Salato, ecco uno spaccato d’India che potremmo definire “provinciale”, se paragonato alle grandi metropoli. Ma una provincialità ricca di storia, monumenti, religiosità talvolta esasperata. E non mancano i ricorsi ai “Nababbi” e ai “Maharajà”
Come narrato nei precedenti servizi, partito da Ahmedabad, metropoli capoluogo ma non capitale del Gujarat, India occidentale, ho ammirato due magnifici templi, il Rani-ki-Vav (definito ‘pozzo’, ma dentro che meraviglie) a Patan e quello del Sole a Modhera, laddove alcune raffigurazioni osè, anzi sexy, potrebbero turbare il viaggiatore bacchettone (chissà perché, a differenza delle religioni orientali, il nostrano cattolicesimo ha oscurato le parti intime di maschietti e femminucce eppoi criminalizzando quel che ne deriva). Entrambi i sullodati monumenti vantano la stessa antichità (XI° secolo) e tanta arte, a quei tempi circoscritta alla sola Asia (l’Europa stava uscendo dai Secoli Bui con l’umile Romanico).
Rann, natura grande e terribile
La prima tappa del Giro in minibus termina dopo più di 200 chilometri in un Lodge poco distante dal Rann of Kutch (sulle carte geografiche indiane Kachchh, ovvero deserto, meglio non tentarne la pronuncia) da Kachbo, in gujarati tartaruga, tale è la silhouette di questo territorio al confine con il Pakistan. Un posto coi fiocchi, il Rann of Kutch, da non perdere (è pure Riserva della Biosfera), sia quello Great-grande che il Little-piccolo, quest’ultimo arricchito da un’inattesa attrazione: l’Asino Selvatico Indiano (Khur, equus hemionus) che trotta con eleganza, esibisce un mantello dai teneri colori pastello, un delicato beige e un bianco sporco tendente al crema. Ma è il deserto salato a rendere Great! (nel senso di entusiasmo) il Rann maggiore. Una infinita candida distesa, resa accecante dal sole, dal passato a dir poco inquietante per le bizze di madrenatura. Perché nei millenni, dalle parti del Rann, è accaduto di tutto. Su questa pianura affiorata dal fondo del mare (ecco la salinità) arrivarono a scorrere l’Indo e alcuni suoi grossi affluenti, fin quando nel 1819 uno spaventoso terremoto non rivoluzionò la geografia della regione rendendola desertica. E nel gennaio 2001 un altro tragico sisma compì l’opera. A ciò aggiungansi i potenti monsoni estivi trasformanti il territorio in un immenso acquitrino. Tante calamità, previste e non (più le mortali dispute tra musulmani e induisti prima della separazione dell’India dal confinante Pakistan, seconda metà del secolo scorso) non convinsero comunque varie tribù indigene ad abbandonare alcuni villaggi che non dà fastidio visitare (l’ovvia vendita di prodotti dell’artigianato – valido e variato, magnifici i colori naturali dei tessuti – non è insistente e insistita, né sono richiesti bakshish per una foto: in tutta l’India la gente, già accennato, è allegra e disponibile).
Cibi vegetariani e niente alcolici
Meno allegro può risultare, nel Gujarat, il viaggiatore aduso a “innaffiare” (si diceva antan) i propri pasti con un bel bicchiere di Barbera o vabbè, in subordine, qualche sorso di birra. Manco a parlarne (salvo affrontare un lungo iter burocratico, riempire moduli, ottenere nulla osta, poi timbri e firme sul passaporto, dopodiché vai nella camera d’albergo e ti arriva la birretta di cui hai ormai perso la voglia). Perché il Gujarat è (unico in India) uno Stato “dry” nel senso di ‘secco’, rigidamente senza alcolici (ma una volta li ho fregati scolandomi una birra contrabbandata da uno Stato confinante). A ciò aggiungasi che sulle insegne di gran parte dei ristoranti è quasi sempre presente la scritta “Veg”, vetariano (e ci credo, con tutti quei vegetariani presenti nella regione, i Giainisti e i pii hindu rispettosi delle lattifere). Ne consegue che un nostrano viaggiatore dai normali comportamenti enogastronomici (non parliamo poi se amante di quelle belle “fiorentine” alte tre dita) una gita nel Gujarat se la gode certamente, ma qualche minirinuncia dovrà affrontarla (unico rimedio, ‘fare il pieno’ in arrivo – e un altro Pit Stop alla partenza – sui voli Emirates da e per Dubai: le hostess capiscono il tuo dramma e sorridenti ti recapitano bottigliette a gogò di vini australiani, francesi e californiani).
A Bhuj, eredità imperiali
Capoluogo del Kutch è Bhuj, la prima di altre città visitate lungo l’itinerario (Rajkot, Gondal, Junagadh) la cui media grandezza (100, 150.000 abitanti, più grande Bhavnagar, 500 mila) permette di notare facilmente l’influsso politico e culturale anglosassone nei quasi due secoli di presenza british in India. Né va dimenticato che nel Gujarat i funzionari coloniali della regina Victoria, oltre che con le genti hindu ebbero a che fare con governanti e fedeli musulmani. Non si contano le entità politiche islamiche, grandi e meno grandi, che hanno costellato questa regione, tant’è che al viaggiatore capita sovente di pernottare nel palazzo che fu di un Nawab (quanto fascino nella nostrana traduzione: Nababbo) o di un Maharajà (grande principe, sovrano, altra esotica parola evocante Salgari e i misteri dell’oriente).
Ricchezza e povertà
Il già citato terremoto che sconvolse il Rann (2001) devastò anche Bhuj, danneggiando gravemente storici monumenti (il britannico Prag Mahal e il settecentesco Aina Mahal) la cui ricostruzione richiederebbe costi che l’economia del Paese non può sopportare. Perché sarà pur vero che (con Cina e Brasile) l’India appartiene al lodevole gruppo delle Economie emergenti, ma è anche vero che (oltre all’assenza di valide infrastrutture, strade moderne, accettabili servizi pubblici nei centri minori) di miseria se ne vede molta. Chiarito che (more quasi solito) tanti soldi sono contenuti in poche tasche (per certo ripiene quelle della potente dinastia Tata) l’establishment indiano ha un bel da proclamare che il Paese ‘non è povero’ (vabbè, recentemente comprato dalla Russia un sommergibile atomico da più di un miliardo di euro) se poi la soglia di povertà è fissata a un income quotidiano di 30 rupie, meno di mezzo euro
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