1 – DIARIO ENOTURISTICOGASTRONOMICO DAL FRIULI VENEZIA GIULIA 1a puntata
x mondointasca, gennaio 2007 – nella foto di copertina, il (saporitissimo) Frico (piatto furlan x eccellenza)

Il Collio

Il Collio

Tempo fa avevo scritto su questo “spettabile” web magazine che il vero Turismo consiste nel sapersi muovere intelligentemente, fare andare la testa, vedere, conoscere, gustare la cultura in tutte le sue sfaccettature. Che spaziano dalla visita di un monumento a una chiacchierata con un indigeno, nel senso di uno del posto, mica i finti cammellieri poliglotti su spiagge disneyane del Mar Rosso; dall’apprendimento di usi e costumi locali a una bella agape con cibi e bevande della gente che stai frequentando.
Passa qualche settimana e allo spettabile web magazine giunge una email (di non elettronico è ormai rimasto solo lo starnuto e poche altre cose) di Elda Felluga -Demiurga del Movimento Turismo del Vino Friuli Venezia Giulia- che plaude e loda il mio scritto e la cosa finisce lì (beninteso con lo scrivente in apnea con il petto gonfio di orgoglio).
Un invito allettante
Invece no, trascorre poco tempo dall’elogio ed ecco pervenirmi un cortese non meno che gradito arruolamento. A Monfalcone si celebra Vino e Territorio – Convention internazionale sul vino e il turismo nel Friuli Venezia Giulia – e io dovrò presentarmi colà al fine di essere “educato” (participio passato non insulso se si vuole dare esatta traduzione all’anglofono “educational tour”).

Ubbidiente come un soldatino, parto con solido entusiasmo prodotto da un coacervo di speranze e sensazioni positive (tra le quali, contrariamente a quanto pensi il perfido lettore, la mia passione vinicola contava solo relativamente, ancorché debba ammettere che non ho mai accettato di partecipare a “educational” del Crodino o della Boario). Perché tanta esaltazione? Perché amo le terre e la gente che vado a conoscere e perché da quelle parti hanno ben governato gli Absburgo (fortunatamente per i miei anfitrioni, un po’ più a lungo che nel “mè Milan”). E a ‘sto punto ritengo giusto e doveroso aprire un inciso dal contenuto storico-politico.

Piccola “Absburgo Story”
Senza essere quello che un tempo era spregiativamente definito un “austriacante”, mi considero (e qualche libro l’ho letto, oltre ad aver strappato un “dott. in Scienze Politiche”) un ammiratore della citata stirpe per i suoi grandi meriti.
Quali? Beh, prima di tutto, per vari secoli gli Absburgo evitarono più conflitti europei del pensabile (compito non facile con quei birbanti dei popoli slavi da tenere a bada) fin quando non arrivò quel gran casinista di Napoleone a soffiare sul fuoco dei nazionalismi, da cui un secolo e mezzo di guerre a gogò. Dopodiché ci vuole poco per dimostrare le altre benemerenze della dinastia, non senza ricordare che sono oggetto di revisionismo i “crimini” attribuiti dai nostrani libri scolastici a S.M.I. Cecco Beppe e al suo fedele Feldmaresciallo Radetzky von Radetz, peraltro amatissimo dal popolino milanese, che ai suoi funerali, a proposito delle Cinque Giornate, proclamò a gran voce, tanto per chiarire, “Hin stàa i Sciuri”, sono stati i borghesi savoieggianti a provocarle.
Per dimostrare i meriti bastano le parole Catasto, Istruzione d’obbligo, Libertà religiosa, Lavori pubblici (la S.S. Milano/Mantova è tale e quale la costruì due secoli fa S.M.I. Francesco II e poi ci mettiamo lo Stelvio, la milanese Scala ecc ecc) dopodiché rivolgere un riverente pensiero a Maria Teresa e al suo albero genealogico non è poi così demenziale.

Monfalcone e dintorni
Ma eccomi orsù a Monfalcone (dopo un’occhiata alla stazione di Cervignano dalla architettura già profumante di Mitteleuropa). Veloce presentazione con gli altri “educandi” convenuti eppoi via verso i noti Cantieri (sorti austroungarici nel 1908 a opera dei Cosulich, nome poi divenuto importante nelle vicende del turismo italiano) eppoi all’antica chiesa di San Giovanni in Tuba (da tromba, quella del Giudizio Universale) indi a soffermarci sul ceruleo specchio d’acqua del riaffiorante Timavo: strano fiume, compie trentotto chilometri “underground” sotto il Carso per sbucare a Monfalcone a due passi dal mare.
La sera, per quanto concerne il massimo degli umani piaceri durante una bella gita (frequentazione di gente giusta, imparare sempre qualcosa, trattarsi bene a tavola mangiando bene e bevendo meglio) si comincia alla grande. Prima di un’elegante cena, nella Tenuta di Blasig a Ronchi dei Legionari (sì, di lì partì D’Annunzio per quel Gran Casino che fu l’Impresa di Fiume; leggere “Alla Festa della Rivoluzione”, Claudia Salaris, il Mulino, robb de matt) Walter Filiputti, Gran Sacerdote dell’eno-gastronomia Friulvenetogiuliana, insegna (orchestrando due giovani ma già esperti chef del Vitello d’Oro di Udine e dell’Androna di Grado).

Ricetta “Baccalà e Mozzarella di Bufala” e altre delizie
E così imparo che esiste una neoinventata leccornia, la “Trasparenza di Baccalà e Mozzarella di Bufala “friulana”!) e ne apprendo la preparazione che trasmetto al cortese lettore: si prende uno specialissimo (resiste a ogni temperatura) cellophane (vedi Google o www.decorfooditaly.it carta Fata) lo si modella a mò di cartoccio, si riempie di pezzetti di baccalà (dissalato per tre giorni) e mozzarella aggiungendo olio, sapori e verdure dopodiché, chiuso il sacchetto con lo spago, lo si mette a cuocere in una padella (non occorre acqua né condimento, anche se a contatto diretto con il metallo rovente il cellophane non brucia). Provare per credere (e da modesto apprendista “gourmand” aggiungo che tale divertente sistema di cottura può essere applicato a tutti gli ingredienti che la fantasia vorrà suggerire).
Prima di un Dessert Sinfonia (sorbetto di mele e una fragola servito con Gubana, doverosamente non meno che ovviamente fradicia di Sliwovitz) Walter Filiputti arricchisce pure le nostre conoscenze ittiche dichiarando che a suo avviso il Pesce Azzurro dei fondali del Nord Adriatico è “il migliore del mondo” (e la sogliola, massimo venticinque centimetri, nonché le schie e i gamberetti di laguna non sono da meno). Le ragioni? La scarsa profondità dell’acqua garantisce ai pesci un “pascolo più concentrato”. Lascio Villa Blasig congedandomi dalla elegante coppia ospitante e neoesperto di una semplice quanto sapida “crema di patate” (con olio, sale, pepe eppoi frullare, provarla, stando però attenti di non scadere in un vile purè).

Fine della 1a puntata…alla prossima!

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2 – DIARIO ENOTURISTICOGASTRONOMICO DAL FRIULI VENEZIA GIULIA 2a PUNTATA

gastronomia - vino e fagianoComincia a Gorizia, dopo un breve trasferimento da Monfalcone, la seconda giornata della già ben avviata (perché subito rivelatasi intrigante) kermesse gastro-giornalistica nel Friuli-Venezia Giulia; la gentile guida mi spiega che ad abbinare il nome della più importante Gens romana e la regione della Serenissima Repubblica fu il glottologo Graziadio Isaia Ascoli, davvero una fausta invenzione geografica.
Sul pullman ho il mio bel da fare a spiegare ai colleghi della stampa estera le intricate e millenarie vicende storiche della zona attraversata.

Continuo “via-vai” lungo i secoli
All’orizzonte, dove la montagna si appiattisce, ecco stagliarsi il valico della Porta d’Italia, evidentemente lasciata sempre aperta visto il viavai cominciato già nella preistoria. D’altro canto il sole e il tepore hanno sempre fatto aggio sul freddo e sulle nebbie, soprattutto quando ci si doveva arrangiare senza il “pile” e i piumini d’oca; fu così che (comunque non per merito del viceministro con delega al Turismo, Rutelli) il Belpaese fu baciato da una sorta di strano turismo (invasioni, sola andata) che in un certo senso anticipò i charter dei Russi sulla Riviera Romagnola; i quali ex tovarich, però, comprate le scarpe “made in Marche” e scolati sei fiaschi di Sangiovese al giorno, dopo una settimana tornano nella tundra).
Fra le antiche e le recenti “New Entries” ecco pertanto valicare la Porta d’Italia i Goti, i Longobardi, gli Alani, gli Unni & Co., via via fino agli attuali ex dipendenti di Ceausescu. Tanto fitto viavai e le derivanti difficoltà linguistiche creavano però nelle genti locali una certa difficoltà di catalogazione dei visitatori.
Il problema fu comunque risolto dai vecchi triestini che un bel giorno decisero di denominare “i s-ciavi” (leggere come “cecio” o come il molisano Di Pietro pronuncia Ch’Azzecca) tutte le etnie – ove si fa riferimento soprattutto agli Slavi – provenienti dai Balcani. Simile scarsa e frettolosa considerazione non differisce di molto nella non lontana Venezia, vedi la celeberrima Riva degli Schiavoni nel bacino di San Marco.

Altalenando fra i diversi idiomi
Le perplessità degli scribi forestieri sulle mie interpretazioni storiche aumentano vieppiù appena termino di raccontare una barzelletta non certo permeata di ideali estero-nazionalistici (non per niente tengo per una squadra chiamata Internazionale). La barzelletta? Eccola. All’incirca dalle parti che stiamo visitando, il 24 Maggio 1915 – giorno dell’entrata in guerra dell’Italia – un giovane tenente dell’Esercito Italiano abbatte la sbarra di confine e agitando la pistola urla “Ahò, dò stà er nemico!?”, al che un contadino lo ferma con una manata sul petto e gli risponde “Te xe tì il nemico”. Al termine della narrazione il silenzio dei colleghi stranieri è ampiamente compensato dal vistoso compiacimento della dotta furlana doc che ci guida e accompagna nell’escursione.
D’altro canto non è che uno si inventi una aficiòn mitteleuropea solo per fare il bastian contrario. Il fatto è che da queste parti gli Asburgo e segnatamente Maria Teresa (metà del ‘700) sono tuttora amati e riveriti. Fu ad esempio l’imperatrice a decretare e imporre la scuola d’obbligo con annesso insegnamento di ben quattro idiomi: tedesco, sloveno, italiano e quel friulano che solo nel 1999 – informa e chiosa la guida con una puntina polemica – la Repubblica Italiana ha riconosciuto come lingua. E se mai fosse il caso di procedere a confronti, tra chi difende le proprie identità e diversità, meglio i Friulani dei Lumbard bossiani che per l’idioma locale poco o niente hanno fatto (a Milano, ormai, canti Oh Mè Bela Madunina e ti prendono per matto, ma tirem innanz). Viva dunque le tante culture presenti da queste parti, mercè la citata Porta d’Italia lasciata aperta; ce n’è per tutti, e dalla brava guida imparo pure che il friulano vanta influssi ladini e celtici (tanto per esibire un po’ di filologia spiccia, Cane si dice ghian, e Gatto ghiat.

La Locandiera (Goldoni permettendo) è a Gorizia!
A Gorizia. La Nizza Absburgica per il suo dolce clima, qui tutto profuma di Mitteleuropa. Ammiri le severe case color pastello e pensi che vi abbiano soggiornato i Von Trotta mentre ti sembra di ascoltare, in lontananza, la balda “Marcia di Radetzky” (scusomi per questo tentativo di saccenteria, ma – oltre alla citata opera – di Joseph Roth, consiglierei pure la “Cripta dei Cappuccini”).
Forse meno “romantik” delle leggiadrie del Bel Danubio Blu che antàn mi deliziavano nel viennese Concerto di Capodanno (abolito dalla Rai per far posto a un concerto autarchico – ma certo più glorioso per quanto attiene i piaceri del palato – è risultato il pranzo a La Locandiera (sottotitolo “Prelibatezze di Confine”, scenario l’arcistorico locale datato 1803). E che prelibatezze, che vado a dettagliare per creare appetiti nel curioso lettore: Cotechino sgrassato in crosta di pane di segale; Orzotto con salsiccia e verza; Capriolo con bacche di ginepro e spaetzle (gnocchetti) allo “sclopit”; Frittelle di mele. Nei bicchieri fianco ai citati, curatissimi piatti, Vertigo di Livio Felluga e Terrano Castelvecchio (le precisazioni enologiche non sono mai troppe, anche perché – lo riaffermo con veemenza da una vita – “la sete non è una colpa”.

Fra i colli del Collio
Si prosegue per le dolci colline del Collio, a Cormòns (p.f. accento sulla seconda o, fosse solo per compensare l’orrore di quei mezzibusto tivù che senza demordere continuano a dire Frìuli accentando la “i”, ma mai un caporedattore che li multi) terra natale del mio amico Bruno Pizzul, principe dei telecronisti balompedici e appassionato cantore della sua Koinè. Oltre che per la citata Saga Pizzuliana, Cormòns è località a me cara perchè ogni 18 agosto, nella frazione Giassìco, ha luogo una bella Festa dell’Associazione Culturale Mitteleuropea rimembrante il compleanno (1830) di S.M.I. Francesco Giuseppe (il manifesto di convocazione è scritto in sei lingue).

Il racconto prosegue con una 3a, ispirata puntata.

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3 – DIARIO ENOTURISTICOGASTRONOMICO DAL FRIULI VENEZIA GIULIA 3a PUNTATA

Lungo le dolci colline del Collio tra Bruno Pizzul e Cecco Beppe

Jota ... a Trieste con la bora....

Jota … a Trieste con la bora….

Cominciato (primo tomo) con una elegante non meno che – quanto a cibi – curiosa e sapida cena in quel di Ronchi dei Legionari, e proseguito (secondo tomo) nell’asburgica Gorizia con visita al castello e pranzo alla Locandiera (“Prelibatezze di Confine”; infatti sono cambiati l’ora del desinare e il menu, non l’ottima qualità), il Famtrip Stampa del Turismo del Vino approda nel Collio.

Il Collio, oggi fra due Stati
Goduto il panorama dal castello di Gorizia (poco lontano, è già terra slovena, nel santuario di Castagnavizza tomba di re Carlo X di Francia) dopo una sosta al mussoliniano Ossario di Oslavia (il Culto dei Morti paga, eppoi non possono replicare) e ammirato il maniero dei conti Formentini a San Floriano, eccoci a Cormòns (nella puntata precedente già pregai di accentare la seconda “o” evitando il tragico errore dei mezzibusto raitivù).
Giusto in tempo per mettere le gambe sotto il tavolo (e non per discutere sul prossimo Partito Democratico) ospiti dell’Azienda Agricola Carlo di Pradis, di Boris e David Buzzinelli. Una sosta estremamente piacevole per tre motivi. In primis, mi ritrovo subito a mio agio in un ambiente “contadino”, lungi da certe spocchie di grandi produttori del Gotha vinicolo che ti ricevono con la puzzetta sotto il naso (rischio peraltro minimo nel nordest italico, più frequente nel Vej Piemont e nella nobile Toscana del Chianti). I Buzzinelli ricevono amichevolmente, alla buona, contornati dalle maggiorenti della famiglia (non conosco nella lingua locale l’equivalente della romagnola “azdora”) signore che si affannano a far da mangiare, mentre garruli Buzzinelli junior stanno incertamente muovendo i primi passi.

Nomi e cognomi “ballerini”

Oddìo, più che Buzzinelli, i nostri ospiti dovrebbero chiamarsi Businel provenendo loro da un “estero” che costì dista solo qualche centinaio di metri e talvolta anche meno, lungo un incerto confine con la Slovenia. Se non che, un bel giorno, il Fascismo pensò bene di italianizzare i cognomi stranieri e da queste parti (crocevia con stop di genti e popoli) l’impresa si rivelò ardua, non tanto per la fantasia nelle traduzioni quanto per il numero dei soggetti a variazione. Come accennato, i Buzzinelli divennero Businel mentre le gazzette sportive si affannavano a far diventare Cucelli il grande tennista istriano Kucel e Nicolò Carosio chiamava Colaussi un footballeur di origine slava fino allora noto come Colausig.
Parimenti, chi incontrasse un anziano signor Sartor o Sarto di origini triestine, non si fidi: potrebbe essersi chiamato Schneider prima delle disposizioni dell’Uomo della Provvidenza. D’altro canto ai ghiribizzi dei cambiamenti “fasisti” il popolo italico non fece fatica ad abituarsi e fu così che bevette il karkadè invece del tè facendolo seguire da un buon “arzente” chiamato cognac nell’odiata Francia, rea di averci fregato Corsica e Tunisi (o non fu forse l’Italica Stirpe a farsele fregare?).
Ma se si parla di nomi e parlate, da ‘ste parti, grazie a dio il problema non esiste più: si zompa senza problemi dallo slavo all’italiano, si capisce il tedesco e in casa ci si spiega in dialetto. No problem nemmeno in tema di appartenenze, bandiere e isterìe nazionali. Il maggiore dei due Businel – mi dice – non si sente sloveno ma – aggiunge – si sente ancor meno romano (“figurati io” gli rispondo quasi abbracciandolo in un empito di Heimat metà piemontese e metà romagnola, con lacrime quando sento suonare “Oh Me Bèla Madunina” che beninteso vorrei accompagnata dalla “Marcia di Radetzky”).

Gestazione del Frico: nove mesi!

Secondo motivo nel rendere piacevole la visita a Carlo di Pradis, il delizioso, da me tanto amato Frico (plat tipic furlàn fat cul formadi) antàn preparatomi da una morosa udinese (fin che costei capì che non amavo lei ma il Frico e mi licenziò senza che la Triplice Sindacale facesse un plissè). E dall’amico di Carlo di Pradis imparo pure (oltre al dettaglio che nel Collio, a differenza di Udine, non si aggiungono le patate) un modo nuovo per ammannire il Frico, alias formaggio Montasio di nove mesi: grattato con grattugia da carote, sia scaldato nel microonde – non in padella – dopodiché sia tolto quando ingiallisce e subito messo in un bicchiere a “fare vaschetta”. Terza e ultima ragione provocante piacere durante la visita da Carlo, uno spiritoso poster (di chi se non di Toscani?) con una provocante negretta esibente un bicchiere e sotto la scritta “è l’unico bianco che amo”.
Un grande slogan, che mi trasporta col pensiero ai miei amici del Bianco di Custoza che coniarono un altrettanto bello “finalmente una vittoria”.

La “pompa” del vino del Collio

Quanto ai vini (perché anche la gola vuole la sua parte) Boris mi conta che il Collio viticolo non supera i 1400 ettari, che un terriccio minuto (in friulano “ponka”) formato da marna arenaria che amalgamatasi con l’argilla rende prospera la vite;
che nel 2005 furono da loro raccolti 105.000 quintali di uva per 73.500 ettolitri di vino. Un rapporto invero basso, tale da non permettere – come accade “in pianura” con gli enormi grappoli di certe uve – che da queste parti il vino costi meno della benzina eppertanto sia venduto come il carburante in vere e proprie “stazioni di vizio” con tanto di pompa distributrice).
Molto meglio comunque “fare il pieno” mercè buone bottiglie bevute in compagnia piuttosto che fianco a una pompa come facevano gli osti della Ferrari con il poco gaudente Schumi al pit stop. E fu così che la “Pattuglia della Sete” mascherata da Gentili Invitati al Famtrip si ritrovò stranamente più allegra (bene diceva Wilde lamentando “resisto a tutto tranne che alle tentazioni”).
Allegri e nemmeno sfiorati da quello straccio di pentimento (misto a preoccupazione) che invece pervadeva il nonno del mio amico William (“dopo aver bevuto un litro” commentava “mi sento un altro uomo; il problema è che anche l’altro uomo vuole farsi un litro”).

Il racconto prosegue con una 4a, ispirata puntata.

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4 – DIARIO ENOTURISTICOGASTRONOMICO DAL FRIULI VENEZIA GIULIA 4a PUNTATA

Una piacevole sosta in quel di Udine ….

Molto in voga da secoli....

Molto in voga da secoli….

Cominciato (primo tomo) con una elegante cena in quel di Ronchi dei Legionari, proseguito (secondo tomo) nell’asburgica Gorizia con visita al castello e pranzo alla Locandiera, il Famtrip Stampa del Turismo del Vino è felicemente approdato nel Collio (terzo tomo), nella cui capitale, Cormòns, lo scrivano riceve lezioni di viticoltura e di Frico (‘plat tipic furlan fat cul formadi’) e adesso….
Si punta dunque verso Udine con gli amici della stampa estera ridanciani (dopo abbondante assunzione dei vini di Carlo di Pradis) non meno che frastornati allorquando – a Judrio, circa a metà strada tra Cormòns e la capitale del Friuli – la gentile guida comunica che fino al 1866 da una parte c’era l’Italia e dall’altra l’Impero asburgico di Austria-Ungheria; in effetti l’unione delle due corone avvenne l’anno dopo, ma è sempre meglio diffidare del lettore che “sta a guardà er capello”, dopodiché prende carta e penna e sogghigna perfidamente pregustando la gogna del cronista.

Confini “ballerini”
Il fatto è che gran parte dei miei “coèquipiers” arruolati dal friulano Turismo del Vino, provengono dagli Stati Uniti o dal Regno Unito (di Gran Bretagna e Irlanda, dizione esatta per l’eventuale suesposto lettore perfettino) e pertanto a questi miei neoamici risulta difficile capire come – nel corso dei secoli – i confini settentrionali del Belpaese siano stati sottoposti a una sorta di ballo di San Vito (quelli meridionali finiscono nel mare eppoi nessuno vorrebbe dei territori con gli ospedali che non lasciano scampo alla maggioranza dei pazienti ricoverati).
Se per un britannico è quasi impossibile comprendere il perché della citata “ballerinità” dei confini di un Paese (non solo perché isolano ma soprattutto per il fatto che dal 1066, William the Conqueror, l’UK non è più stato visitato da alcun straniero armato e in divisa, eppoi gli inglesi, dal ‘500 hanno sempre cuccato e mai dato) anche per un Yankee il fatto di prima prendere eppoi mollare non è poi così facile da metabolizzare. E il perché non è poi così difficile da spiegare. Una volta assicurati i loro confini “Coast to Coast”, gli eredi di Washington si son messi a fare shopping nel mondo e fatto salvo il Viet Nam, che però era “roba francese”, a periodici ritocchi “in perdita” di confine o a “ripiegamenti sulle posizioni prestabilite” – questo era il sinonimo di “ritirata” usato dai nostrani comandi durante la Seconda Guerra mondiale – non sono mai dovuti ricorrere.

Udine: da Odino o da Ottone?
E intanto siamo arrivati a Udine.
Nel descrivere le emozioni provate nel ritornarvi faccio subito sfoggio di grande cultura, segnalando che da qualche parte lessi che il nome Udine deriva da Odino (o Wotan, divinità principale del Pantheon nordico). Ma siccome questa mia chicca non è suffragata dalla “autorevole” Wikipedia (come un tempo lo era il quotidiano cairota Al Ahram, non c’era volta che il giornale radio non lo definisse tale) meglio la certezza del nome medioevale, Utinum, dato alla località resa più importante da un castello donato dall’imperatore Ottone II.
Divenuta veneziana (1420) Udine seppe mantenere una certa identità (un esempio, il dialetto, pardon, la lingua locale) nell’ambito degli interessi politici della Serenissima Repubblica, che con le province dell’entroterra – si era già ammirato il Leone Alato dominare l’ingresso del castello di Gorizia – quanto a sfruttamento e “prelievi”, mica scherzava; vedi le verdi distese della Carnia chiamate “i boschi di San Marco”, da cui il legname per le galere costruite nell’Arsenale.

Artisti lombardi in Friuli
Se l’influsso “venexian” è pertanto enorme (dalla piazza Libertà la visione dei Due Mori e della Torre dell’Orologio ti trasporta pari pari in piazza San Marco e all’orologio della chiesa di Campo San Giacometo dipinta dal Canaletto) si scopre però che anche l’umile apporto dei costruttori Lumbard (cominciarono all’epoca del romanico come tagliapietre poi divennero capomastri e infine architetti) ha lasciato a Udine buona traccia. E’ opera di Beniamino da Morcote (Lac de Lugàn, a un tiro di schioppo dall’oggidì “casinista” e corrotta Campione, ma un tempo culla dei Maestri Campionesi) la ristrutturazione (orrido termine moderno, ma sa tanto di “Loft”) della chiesa di San Giacomo (in furlàn Glesie di Sant Jacum).

Situata nell’omonima piazza (ex piazza delle Erbe e anche Giacomo Matteotti, ma per pochi) il tempio (eretto a fine ‘300) fu ben ridisegnato dal sullodato architetto lombardo (XVI secolo) ed è curiosamente noto per la chicca che da un suo balcone era officiata una messa, dando così modo al popolo del sottostante mercato di ripulire la coscienza testé lordata con bilance truccate o facendo la cresta sul conto.

Per finire, da Tiepolo al Pestà
Poco distante (sempre a proposito di artisti lombardi in trasferta nella friulana terra di castelli e terremoti) ecco i bei dipinti di Giulio Quaglio (Laino Val d’Intelvi, Como, 1694) nel Palazzo (Antonimi-Belgrado) alias della Provincia. Al lato, il Palazzo Arcivescovile con gli affreschi di Giovan Battista Tiepolo (che da Udine si trasferì a Madrid, sommo pittore di corte) visioni così belle che non posso abbruttire con la mia povera prosa: prenda il lettore un’auto o un treno e vada a vedere di persona questo ben di dio (e quanti “Ohhh” esclamerà nella Biblioteca Delfino).
“Imparate l’arte, la si metta da parte” (così recitava antàn un adagio ormai scomparso) si passi alla Udine bacchica e godereccia, alla simpatia dei suoi bar (all’esterno, un asse posto orizzontalmente serve per deporre il bicchiere di chi, servitosi al banco, esce in strada e fa quattro chiacchiere sorseggiando un bianco giusto; da queste parti il Crodino e il Sanbittèr non è che godano di molta e buona fama. Si lascia Udine dopo un macrobiotico shopping di Pestà (grasso di maiale, rosmarino, cipolla, lardo, salvia, sedano). Chi può escludere che i valori dello spirito non siano custoditi nel cartoccio di una salumeria (stavolta udinese)? Perché mai disperare?

Fine della 4a puntata (attendersene una 5a).

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5 – DIARIO ENOTURISTICOGASTRONOMICO DAL FRIULI VENEZIA GIULIA 5a PUNTATA

SMI ogni anno il 18 agosto a Giassico/Cormons si festeggia il suo genetliaco (1830)

SMI ogni anno il 18 agosto a Giassico/Cormons si festeggia il suo genetliaco (1830)

Il diario enoturistico friulano prosegue al Sacrario di Redipuglia … e breve riassunto delle puntate precedenti… Arruolato in un Famtrip organizzato dal Movimento Turismo del Vino del Friuli-Venezia Giulia, lo scrivano sta girando per la Marca nord orientale del Belpaese. Insieme a giornalisti della Stampa Estera, negli stop tra agapi e libagioni si è anche soddisfatto qualche esigenza culturale, visitando Monfalcone, Gorizia, il Collio e Udine. La megagita approntata dagli amici furlàn, volge, ahilui al termine, con quest’ultimo intervento, ma – come sempre nella vita – c’è ancora molto da apprendere …

Udine
Insieme ai colleghi della stampa estera (e a conti fatti posso pure considerarmi uno di loro, appartenendo alla Fepet – la “Federaciòn Española Periodistas” – in quanto socio dell’Apetex, “Asociaciòn Periodistas Extremadura”) lascio la bella Udine suscitante in me un misto di sensazioni, ricordi, meditazioni, reminescenze palatali. Se mai dovessi iniziare da queste ultime, torno a citare il sapido Frico (nella versione udinese, con patate e cipolla, appetto alla versione del Collio, solo formaggio) aggiungendovi prosciutti e vini. Se invece si parla di Sport, eccomi giovinetto futballaro (quelli sotto i cinquant’anni saltino le due righe che seguono) ammirante l’Udinese che pervenne al 3° posto in campionato (oltre a un mostro di sopportazione e fatica a centro campo, tale Menegotti, c’era un divino e quasi albino attaccante svedese di nome Selmonsson noto anche come “Raggio di Luna”).

Tenacia friulana e fame d’antan
Ma più prosaicamente andrei sul sudore da lavoro, l’abnegazione, la perseveranza, lo spirito di sacrificio e di fratellanza (perché non chiamare Eroismo l’insieme di tutte queste prerogative?) nel ricordare quanto fatto dai Friulani in occasione del terremoto del ’76 (vedere Gemona per credere). Infine, fosse solo in omaggio alla goliardia, delle cui battute resterò in eterno un coriaceo corifeo, eccomi – mentre Udine sfugge all’orizzonte – narrare a una curiosa giornalista newyorchese il profondo significato del glorioso detto locale “Friùl Tete e Cul”.
Attraversiamo una delle zone più ricche del nordest, ma un pensiero vada agli antenati dei tanti neoricchi viventi nelle villette e bei condomini che lasciamo alle spalle. Avi, non poi tanto lontani – anche solo nonni se non padri – che per sfamarsi preparavano nel paiolo un’umile polenta dopodiché vi scavavano un buco nel mezzo, vi sbattevano dentro quel che c’era, a mò di insaporente condimento (un evviva se affioravano dalla dispensa un paio di luganeghe) e riuniti familiarmente in circolo attorno al fumante desco combattevano la lotta quotidiana contro l’unico e quindi più importante nemico allora esistente: la Fame.
Panta Rei, tutto scorre, cambiano i tempi. Tant’è che oggidì le discendenti dei citati affamati e pure vittime della pellagra, ammirano invidiose in tivù le modelle anoressiche, mentre i loro drudi infilano nei carrelli del supermarket costose merendine transgeniche. Mah.
Una “Vittoria” dimenticata

Ricostruzione storica delle vicende belliche della Prima Guerra Mondiale
Datosi che la citata (4° tomo) visita di Udine aveva luogo il 4 Novembre – 1918, fine della Grande Guerra, vittoria dell’Italia ancorché, ahinoi, un filino dimenticata non avendovi partecipato né Paolo Rossi né Cannavaro – poteva forse la 4a tappa del Famtrip Stampa del Movimento Turismo del Vino non concludersi al Sacrario di Redipuglia? No davvero, eppertanto eccoci sbarcare in questa località (il cui nome non ha niente a che vedere con la Regione Puglia ma più semplicemente deriva dallo slavo Rodo Polje, campo nudo) un posto che (comunque la si voglia pensare a proposito di guerre, morti, retorica e ipocrisia) lascia ovviamente spazio a qualche meditazione.
Fortunatamente capitati a Redipuglia in occasione dell’anniversario della Vittoria (un tempo Festa Nazionale, oggidì annullata, forse per fare posto all’augusto Compleanno Genetliaco di Pippo Baudo) si è financo riusciti ad ammirare una ricostruzione storica delle vicende belliche tra Italia e Austria-Ungheria.
Quei “tognini austroungarici” i cui eserciti – chi non ricorda il Bollettino della Vittoria, Firmato Diaz, talché a molti pargoli venuti al mondo dopo il 4 novembre 1918 fu affibbiato il nome Firmato? – finì che risalirono “in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”.

“Recitando” il passato…
Ed eccole qui le comparse “ricostruenti” la Prima Guerra Mondiale (1915, per l’Italia, 1914 per il resto del mondo – 1918 per tutti) da cui l’insorgere di una “autodomanda” cui non sono proprio riuscito a dare una risposta. Ma come farà mai a venir voglia a un lattoniere di Rovigo piuttosto che a un geometra di Cupramontana di prendere, partire da casa e farsi centinaia di chilometri d’auto, arrivare in posti brulli e inospitali, dopodiché trascorrere ore e ore all’addiaccio, nell’umidità, infilato in una improbabile uniforme di alpino o di “alpenjaeger”, per giocare ogni tanto, con un fucilino, a catturare un “austriaco” che alzando le mani gli dice “minchia, che freddo cumpà”? Mah.

… e “ricordando” il passato
Ça va sans dire, che lo scrivente, fosse solo perché a fare il Bastian Contrario si trova quasi sempre a proprio agio. ha ardentemente sperato che almeno stavolta vincessero gli Austriaci. Niente di niente, l’ordine d’arrivo continua inesorabilmente a essere sempre il medesimo, sempre lo stesso dal lontano 1918 (ma fortunatamente a Milano, con quel che combina la sindaco Moratti, sembra stia facendo capolino qualcuno che comincia a rimpiangere la grande imperatrice S. M. Maria Teresa d’Austria).

Quella Maria Teresa che nel lontano Settecento impose ai sudditi (e quindi anche ai Furlàn ea i Triestìn) la scuola obbligatoria, pure alle femminucce, fino ai 14 anni (e a tale proposito la guida illustranteci Redipuglia ci racconta che durante la Grande Guerra, nella non distante Villesse, il nostrano esercito fucilò come spie alcuni contadini solo perché capaci di leggere e scrivere….).
Visto che quanto narrato dalla nostra Cicerona non risulta più edificante di tanto, mi consolo apprendendo che non raramente i Povercrist delle trincee, gli sfigati presi, infilati in una divisa e mandati a combattere (la cosiddetta Carne da Cannone) si aiutavano e rispettavano a vicenda (quando possibile e all’insaputa dei “superiori”). Ti scappava un bisogno, volevi prendere un po’ d’aria o fumarti una sigaretta? Uscivi dalla trincea e da quella di fronte non ti sparavano addosso.

Fine 5a puntata, in arrivo una 6a….

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6 – DIARIO ENOTURISTICOGASTRONOMICO DAL FRIULI VENEZIA GIULIA 6a PUNTATA

Gli irlandesi bevono molto

Gli irlandesi bevono molto

Breve preistoria…. Arruolato in un Famtrip del Movimento Turismo del Vino del Friuli Venezia Giulia, lo scrivano sta girando per la Marca Nordorientale del Belpaese. E poiché fortunatamente non si vive di solo pane (ogni tanto ci scappa anche qualche fetta di salame) ecco che – tra svariate agapi e degustazioni – i gentili anfitrioni hanno lasciato spazio pure a qualche esigenza culturale. Per la gioia del cronista si è pertanto visitato Monfalcone, Gorizia, il Collio, Udine e Redipuglia. La megagita approntata dagli amici furlàn, volge al termine, ma – come sempre – c’è ancora qualcosa da apprendere…

Ricordi non lieti alle spalle
Redipuglia è ormai alle nostre spalle e dio volesse che il nostro cervello fosse come un computer, in grado cioè – premendo un tasto – di cancellare ricordi di vicende inquietanti, non edificanti, quale ad esempio fu la Grande Guerra (forse – se mai esistesse una “classifica di intelligenza” tra le guerre – il più stupido conflitto mai deflagrato, un vero e proprio harakiri che mise fine a secoli di eccellenza del continente Europa).
Dopo aver passato in rassegna 100.000 tombe e assistito al goffo – ancorché vada applaudito chi dedica il proprio tempo alla cultura della Storia, quale che sia il suo ruolo – teatrino ricostruente alcuni momenti bellici tra Austriaci e Italiani, occorreva proprio qualche bel momento di relax.

Un ristorante per due Paesi …. il ristorante Devetak
Ed eccolo, materializzato in una sontuosa non meno che tipica cena al ristorante Devetak, a un tiro di schioppo (il nome stesso lo conferma) dal bislacco confine con la Slovenia. Bislacco o demenziale, sennò come ti spieghi perché tante famiglie un bel giorno si ritrovarono a far da mangiare in patria e a dover emigrare per fare i bisogni nel cesso di casa, solo perché un pirla di geometra-politico aveva tracciato una linea di confine all’interno delle loro case?

Devetak, a San Michele del Carso (Goriziano) più che un ristorante è un mito (ma al contrario dei miti, che non hanno mai sfamato chicchessia, qui si mangia pure, e alla grande). Stessa proprietà da sei generazioni (bello, leggere in calce al menu “La famiglia Devetak vi augura buon appetito”, una chicca negata al mio quattrenne nipote Xavier, deglutitore di megahamburger surgelati al Mc Donald) da sempre arredato nel tradizionale stile mitteleuropeo (chi ha presente il Cavallino Bianco, la Vedova Allegra, la Principessa della Csarda?); il ristorante apre solo la sera e ammannisce piatti assolutamente rari. Una prova? Il menu che segue e che per certo stuzzicherà sia la curiosità che l’appetito del gentile lettore (tra parentesi i vini).

Cena da Re
Frittatina carsolina ai due colori (Vitoska Mario Milic, 2005 Repnic, Trieste); Rotolo di pasta lievitata con ricotta fresca affumicata e fonduta di formaggi (Malvasia d’Istria Castello di Rubbia 2005, Savorgna d’Isonzo, Gorizia); Selinka (Sauvignon del Carso, Silvano Ferluga 2002, Piscanci, Trieste); Sguazzeto alla maggiorana, ricetta di famiglia (Refosco Castelvecchio 2003, Sagrato d’Isonzo, Gorizia); Trippe alla carsolina in scodelle di parmigiano e patate in tècia (Terrano Zidarich Benjamin 2003, Praprot, Trieste); Struklji kuhani ai fiori di finocchio selvatico e crema di zucchero aromatizzato (Longhino di Dario Coos 2003, Ramandolo).

Dopo cotanta dolce condanna ai bicchieri forzati, mancava solo un supplemento di pena, puntualmente comminata mediante un valida somministrazione di grappe, amari, slivovize, digestivi e quant’altro permettesse alla dissetata pattuglia della stampa turistica di dimenticare, almeno provvisoriamente, quanto visto e appreso nel pomeriggio su “La Guerra contro l’Austria-Ungheria ecc. ecc. Firmato Diaz”.

Nord Est: lavoro e vino
Sulla strada del ritorno a Monfalcone la mia coscienza si acquieta nell’apprendere dall’autista che (ahilui, ndr) è astemio sicché le citate libagioni eppoi la visione (non parliamo dell’audizione) di tanto allegra brigata, non lo angustiano più di tanto (in effetti, concordi il cortese lettore: obbligare un amante del vino a partecipare a una cena come quella suesposta e nel contempo impedirgli di toccare il bicchiere è come portare un diabetico in una pasticceria; meglio evitare).
Già, il vino, una costante quindi una continua presenza durante la visita di questo chiacchierato (per il vanto – giustificato, chi sgobba ha diritto di gloriarsi – della sua ricchezza, da cui una proclamata differenza provocante una certa voglia di maggiore autonomia, libertà economica) estremo Nord Est del Belpaese.
Che non si limita al solo sviluppo industriale, a fabbricare soltanto lavatrici e frigoriferi, ad andare a impiantare aziende e laboratori nel Sud Est dell’Europa.
La produzione vitivinicola è fiorente, dà ricchezza e si basa sulla qualità (in un supermarket una bottiglia di un “normale” bianco del Collio non si compra per meno di 7 euro) sulla bontà (durante una degustazione il titolare di un’azienda agricola commenta “nessuno è obbligato a bere il vino, il vino dà emozioni e piaceri che è giusto che la gente paghi”; verissimo).

Il famtrip, orrida parola yankee – ai raduni antiamericani potranno anche andare a manifestare in milioni, ma lo sport nazionale del Belpaese continuerà a essere lo scimmiottamento delle mode, delle abitudini, del periodare, in breve, dello stile di vita Made in Usa – volge ahinoi al termine.
Non resta che una bella gita a Trieste, raggiunta dopo stop e visita degli asburgici castelli di Duino e Miramare.

Un’escursione che sarà puntualmente descritta “alla prossima 7ma puntata”.

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7 – DIARIO ENOTURISTICOGASTRONOMICO DAL FRIULI VENEZIA GIULIA 7ma PUNTATA

I castelli di Duino e Miramare (nella foto, ritratto della ”nostra” Graziosa Imperatrice Maria Teresa di Absburgo che in pochi anni ha fatto per Milano quel che non hanno fatto tutti i sindaci messi assieme negli ultimi 60 anni…)

Chi va là?! San Marco!

Chi va là?! San Marco!

Brevi precedneti …. Arruolato in un Famtrip del Movimento Turismo del Vino del Friuli Venezia Giulia, lo scrivano sta girando per la Marca Nordorientale del Belpaese. E poiché fortunatamente non si vive di solo pane (ogni tanto ci scappa anche qualche fetta di salame) ecco che – tra svariate agapi e degustazioni – i gentili anfitrioni hanno lasciato spazio pure a qualche esigenza culturale. Per la gioia del cronista si è pertanto visitato Monfalcone, Gorizia, il Collio, Udine e Redipuglia. Dopo la bella cena nel Carso goriziano (di cui alla puntata precedente) il megatour approntato dagli amici furlàn si conclude con una gita ai castelli di Duino e Miramare …

Made in USA, odio e amore
Ed eccoci alla tappa finale del famtrip, orrida parola (deriva da “familiarization” – vedere, conoscere, parlare ma soprattutto magnare e bere – e da “trip”, viaggio) che detto col poeta significa “giornalisti e addetti al turismo viaggianti a sbafo”, brutto neologismo che nel “mundillo” turistico del Belpaese ha riscosso successo per il solo motivo che proviene dagli States. Perché, come già accennato nel tomo precedente, ai raduni antiamericani potranno anche manifestare in milioni urlando “Yankee Go Home” ma alla fine della fiera l’italico sport nazionale resta lo “scimmiottamento” di tutto ciò che è “Made in Usa”, ivi comprese le consumistiche feste fasulle tipo Halloween, San Valentino, la Festa di Papà, Nonni e Zie (manca solo la novembrina Festa del Tacchino, forse solo perché il pennuto non è incluso nello spot televisivo dei polli garantiti dalla “parola di Francesco Amadori”).
Ne consegue che anche il più accanito “No Global anti-Bush” nostrano (indossante jeans, teeshirts, Ray Ban, Timberland, Baseball cap, magliette Nyc e scarpe Nike) somiglia più all’Alberto Sordi “del Kansas City” nel film ”Un Americano a Roma” che a un kamikaze Fedayn rigenerante il Mondo, quale si crede (e vorrebbe) essere.

Da un Casato alemanno ad uno bergamasco
Galop finale, dunque, verso Trieste (fosse solo per non “vederla in cartolina” come nella scherzosa canzoncina del “General Cadorna che scrisse alla regina”) non senza due doverosi stop negli asburgici castelli di Duino e Miramare.
Non solo per storica vetustà e magnifica posizione panoramica e strategica, ma anche per altri validi motivi, l’arroccato borgo di Duino andrebbe preferito all’arzigogolato edificio di metà Ottocento voluto dal fratello di Cecco Beppe.
Invece non è così, visto che il castello di Miramare è il quarto monumento più visitato in Italia. Duino vanta comunque un intrigante “ensemble” di architetture (bella la corte) che spazia dall’epoca medioevale a costruzioni più recenti, propone attualmente una valida e varia attività culturale (interessante, durante la nostra visita, un’esposizione dell’arte cinese) e grazie alla posizione sull’ultimo sperone roccioso del Carso, offre dintorni contrassegnati da una Natura aspra eppur piacevole. Ulteriore attrazione della storica rocca di Duino, la mitica passeggiata di Rainer Maria Rilke, indiscutibile “dritto della Mecca” nel trovare i posti giusti dove campare, considerato che quando non se la spassava a Duino se la godeva all’hotel Reina Victoria nell’andalusa Ronda, ospite sì assiduo da convincere i proprietari a trasformare in museo la camera da lui abitata.
“Noblesse oblige”, il castello è da secoli proprietà della dinastia Thurn und Taxis, alias la bergamasca famiglia Tassi che fece fortuna inventando il servizio postale (e pure sulla parola “taxi” potrebbero rivendicare una sorta copyright). Un casato che, con tutta la grana accumulata facendo i postini nell’impero asburgico, oggidì potrebbe anche permettersi il lusso di non dover vendere la birra di famiglia nel bar dell’avito borgo (ma i bergamaschi, si sa, se si parla di “danée” non vanno per il sottile e a conti fatti la birra Thurn und Taxis non è poi così male).

Miramare, castello della sfortuna

Quanto al Castello di Miramare, beh, chi sta per descriverlo crede nell’immanenza del Fato (che se negativo prende il nome di Sfiga) eppertanto non può che fornirne un resoconto non ilare, per non dire un filino funereo. Eh si, perché Miramare (nido d’amore di breve durata per Massimiliano d’Asburgo, grande ammiraglio della imperiale Marina del fratello Francesco Giuseppe e per la di lui sposa Carlotta, in un quadro nel castello curiosamente dipinta in un costume brianzolo) non costituì soltanto una sorta di anticamera conducente alla tragedia messicana, lui fucilato a Queretaro, lei folle di dolore. No, non pago di aver alloggiato l’arciducale coppia
(e vi transitò pure la Sissi, già infelice sposa di Cecco Beppe eppoi pure lei morta accoppata da un anarchico nostrano) Miramare fu pure residenza ufficiale dello sventurato Duca d’Aosta (ramo cadetto dei Savoia, chissà se con loro incoronati sarebbe cambiata la storia del Belpaese, mah) abbandonato con scarse truppe nell’allora A.O.I. (Africa Orientale Italiana) e drammaticamente morto in prigionia. A ‘sto punto (sempre in tema di Sfiga) commenti il lettore se il Castello alle porte di Trieste (almeno) qualche dubbio non lo solleva. Né aiuta (a smentire che nei suoi saloni non maturarono tragiche Sfortune) una visita del medesimo.

Novara, il “destino” in un nome
Eccoci, ad esempio, entrare nella Sala “Novara”, così chiamata dal nome della fregata che portò Massimiliano in Messico verso il plotone di esecuzione di Benito Juarez.
E si ha un bel dire che se la carducciana Novara fu “fatal” per il futuro Belpaese,
per gli Austriaci, invece, rappresentò una grande vittoria (di lì il nome dato alla nave) sui Piemontesi; ma come poteva non finire disastrata una truppa al cui comando eravi un altro Grande Sfigato, quel Carlo Alberto, perenne sconfitto, che in tutta la sua vita mai riportò una vittoria, un successo che fosse uno? Se si parla di Storia, non è azzardato dire che Novara (mi spiace scriverlo, trattandosi di una città che ospitò la mia gioventù) un pò di Sfiga alle “Italiche Vicende” potrebbe averla portata.
Non si dimentichi infatti che proprio a Novara, il 10 aprile del 1500, Ludovico il Moro fu sconfitto e cuccato prigioniero dai Francesi di Luigi XII (complici quei “baloss” dei mercenari svizzeri che se l’erano svignata) eppertanto lo Stivale cadde in una plurima schiavitù (Franzosi, Spagnoli, Austriaci e chi più ne ha più ne metta) durata la bellezza di 360 anni.
Qui giunti e pure stanchi di sommare (Miramare + Novara + Massimiliano + Queretaro + Carlo Alberto + Carlotta) che onestamente non sono proprio il massimo dell’allegria, preferisco lasciare la cronaca della mia visita a Trieste a momenti più sereni… ciao.