Molta attenzione, stiamo entrando nell’intrigante mondo del Eldorado, nel mito (per alcuni, ma non molti, una arricchente realtà, però a che prezzo) che nel XVI coinvolse generazioni di Conquistadores, quei soldatacci provenienti dalla Spagna da poco unificata e prossima a vantare il famoso impero sul quale ‘non tramontava mai il sole’. Eldorado o El Dorado, più completamente El principe Dorado, la leggenda dell’Uomo d’Oro scatenante quella Esecranda Fame del prezioso metallo che diede inizio alla Leyenda Negra, l’incubo di tanti sovrani spagnoli, da Filippo II in poi…….
E per Eldorado si faceva riferimento al Cacique, capo, principe delle tribù ‘Indigenas’, che periodicamente –in occasione di semine e raccolti- cosparsosi il corpo di miele vi spargeva polvere d’oro, dopodichè, giunto su una ‘balsa’/zattera al centro di una laguna e gettativi oggetti d’oro e smeraldi a mò di offerta, si immergeva affinché la prezioso polvere andasse a depositarsi sul fondo.
Ma dove mai trovare questo Eldorado? Le voci, i si dice si riferivano a una zona quanto mai vasta e vaga, spaziante dal Perù (tuttora esiste il detto italiano “vale un Perù”) alla Colombia, nella parte settentrionale del sud America che i Conquistadores raggiungevano dal Caribe (i Caraibi) sbarcando a Cartagena o nell’istmo di Panamà. Fin quando, con ovvia approssimazione, una delle tante, possibili mète di questa frenetica Caccia al Tesoro fu localizzata in una laguna non distante da Bacatà, un villaggio degli indigeni Muisca (chiamati anche Chibcha, dal nome della loro lingua). E datosi che dietro a ogni mito o leggenda si nasconde sempre un filino, un minimo di realtà, i si dice corrispondevano al vero. Una laguna del tesoro esisteva davvero ed era quella di Guatavita (le cui ricchezze contenute, non risultarono però così enormi, come attestarono le ricerche già iniziate con scavi e canalizzazioni nel XVI secolo e culminate nel prosciugamento avvenuto nel 1911).
Con il miraggio di entrare in possesso di un enorme Jackpot garantente castelli, titoli nobiliari e ricchezze nella Spagna lasciata da morti di fame, i Conquistadores si misero in marcia (ma che tragica marcia: si trattava di risalire il Rio Magdalena, tra caimani e febbri malariche, giungla aperta a colpi di machete e frecce avvelenate) verso l’Eldorado. E vicino a Bacatà -un migliaio di kilometri nell’interno del territorio destinato a divenire il Virreinato de Nueva Granada o Virreinato de Santafè-, il 6 agosto 1538 il Conquistador Gonzalo Jimenez de Quesada fondò Santafè (poi Santa Fe) di Bogotà (solo Bogotà dal 1819, all’ottenimento dell’indipendenza della Colombia da parte del Libertador Simòn Bolìvar).
Con la fondazione di Bogotà, Quesada (che non era il solito soldataccio bensì un avvocato andaluso, cordobese o granadino, spedito da Madrid ad amministrare giustizia nel Nuovo Mondo) oltre a dotare di una capitale la futura Colombia (per estensione 4° Paese del sud America, 1.141.000 kmq, quasi 4 volte l’Italia, meno di 50 milioni gli abitanti) completava la colonizzazione delle terre a sud dei Caraibi (e la Corsa all’Oro) cominciata sulle attuali coste colombiane dai ‘colleghi’ Conquistadores, Rodrigo de Bastidas (fondatore di Santa Marta, 1525, primo insediamento spagnolo nel sud America) e Pedro de Heredia (fondatore di Cartagena de Indias, 1533).
Adagiata su una verde, fertile pianura (la Sabana, in spagnolo lenzuolo) incastonata a 2.600 metri di altitudine tra le Ande centrali e quelle orientali (costituenti un punto di orientamento per chi visita la città), Bogotà non crea grossi problemi di ambientamento a chi proviene dalla ‘piatta’ Europa (più di 8.000 km di distanza, quasi 10 ore di volo da Madrid). D’altro canto, come in tutte le zone tropicali in cui gli europei decisero di trasferirsi, la vita risulterebbe difficile a quote superiori (da queste parti culminanti con il vulcano Nevado del Ruiz, 5.380 metri, a poco più di 100 km da Bogotà) per problemi di temperatura e di respirazione, e ancor più ardua a quote inferiori per il caldo umido e le conseguenti malattie. E parimenti ad altre metropoli del centrosud America, Bogotà incuriosce chi la sorvola durante l’atterraggio: la quasi totale prevalenza di case basse circondanti il centro cittadino denso di grattacieli, crea infatti una zona abitata talmente vasta da far pensare che là sotto convivano ben più dei pur tanti 8 milioni dichiarati da guide e stampati turistici.
Ma i problemi per il viaggiatore che attualmente visita la Colombia non consistono nella meteorologia o in quello che sulle montagne lombardo-piemontesi è volgarmente chiamato “il banfone” (la quasi ansimante respirazione, soprattutto se sotto sforzo, ad alta quota). A preoccupare chi arriva a Bogotà, o quantomeno a creare una situazione psicologica definibile “curiosa insicurezza” (di quel che può accaderti) o, se si preferisce, “insicura curiosità”, è il background, l’insieme di notizie che il viaggiatore ha accumulato nel tempo sulla Colombia.
Notizie, tutte un filino negative. Vedi i Cartelli della Coca (Medellìn e Càli distano circa 500 km da Bogotà) con i trascorsi disastri per il turismo dovuti agli atti terroristici contro aerei e alberghi da parte dei narcotrafficanti in lotta contro lo Stato. Vedi la consueta criminalità: fino al 24/2/09 Wikipedia definiva Cartagena “zona tra le più violente e pericolose della Colombia e del sud America” (salvo poi smentirsi e mediante modifica e aggiunta della voce ‘sicurezza’ garantire il contrario; e così può confermare chi scrive, dopo un soggiorno in un clima di assoluta tranquillità). Vedi, infine, le vicende della Guerriglia, dei sequestrati, di territori sfuggiti di mano al potere dello Stato, e a tale proposito è opinione corrente tra i colombiani che quanto a caos politico e corruzione alcuni miglioramenti si sono già verificati dopo l’avvento al potere del presidente Uribe.
Ciò premesso (e doverosamente evidenziato, sennò si va in giro solo per descrivere le rituali spiagge “mozzafiato” e le solite suites d’albergo 5*) e problemi psicologici a parte, un salto a Bogotà non comporta più pericoli di tanto. O quantomeno –come recitano canonicamente gli addetti ai lavori all’arrivo dei turisti- si corrono gli stessi rischi che si corrono in altre metropoli meno chiacchierate (sembra che, secondo statistica e in confronto a Bogotà, la percentuale di accoppati sia ben più alta a Caracas e soprattutto a Rio de Janeiro). Unico consiglio al visitante, non preoccuparsi più di tanto alla vista di misure di sicurezza a dir poco eccezionali. All’arrivo è stranamente richiesto (di norma, superata la dogana, il viaggiatore procede senza sottostare a ulteriori formalità) di sottoporre bagaglio ed effetti personali all’esame di scanners e raggi X; la polizia è tanta e onnipresente, pattuglia e controlla vie cittadine e strade extraurbane; abbondano i cani, soprattutto i Terranova, condotti al guinzaglio da agenti in divisa non per mera cinofilia bensì per stanare ordigni esplosivi (valido il loro lavoro, ammirato durante una simulazione organizzata per il cronista: il cane procede tranquillo e appena sniffa un potenziale pericolo avverte il compagno bipede sedendosi a un paio di metri di distanza).
Escluse o quantomeno ridotte le ‘chances’ di coinvolgimenti in esplosioni o narcotraffico, al viaggiatore non resta che ‘stare accorti’, fare attenzione al ‘solito’ (ormai copyright mondiale) scippo. Che –per opportuna informazione filologica del lettore- nello spagnolo locale (per inciso, in Colombia ben parlato e pronunciato, forse il miglior esempio della lingua di Cervantes nell’America ispanica) è chiamato Raponeo (a Madrid e dintorni, Tiròn) talchè scippare si dice Raponear e chi scippa è un Raponero (al quale è pertanto meglio non “dar papaya” nel senso di far vedere qualcosa che vale la pena scippare).
Al sollievo di una visita ‘tranquilla’ (o meno pericolosa di quanto si vocifera) Bogotà abbina inoltre il piacere di conoscere una città ‘nuova’, moderna, diversa dai datati stereotipi di molte città sudamericane. Nonostante una indubbia lontananza dagli States (che però in Colombia avevano messo piede a fine ‘800 per trescare l’indipendenza –eppoi costruirvi il Canale- del territorio di Panamà, a quel tempo posseduto da Bogotà) la capitale colombiana ricorda –oltre all’appartenenza a un Distrito Especial simile a quello Federal negli States- l’urbanizzazione di alcune grandi città ‘yanquis’. Non tanto per la ‘skyline’ del centro ricca di svelti grattacieli e la nomenclatura cittadina con le ‘calles’/vie (perpendicolari alle montagne andine e in direzione oriente-occidente), e le ‘carreras’/strade (parallele, da sud a nord) quanto per le ultime, recenti opere pubbliche e i molti spazi verdi. E’ il caso di istituzioni culturali (la Biblioteca Arango, il Museo Botero, il Centro Gabriel Garcia Marquez) e di parchi (molti, ben tenuti e affollati soprattutto nella stagione secca dicembre/marzo): il Simòn Bolìvar, il Terzo Millennio, il Nacional –dal 1934 dedicato alla memoria collettiva dei ‘bogotanos’-, il Central Bavaria –nel Centro International, il cui terreno era occupato da una birreria che gli dà il nome. E di avveniristici centri commerciali e di infrastrutture per una miglior qualità della vita (oltre 200 km di Ciclovie, dalle 7 alle 14 dei giorni festivi riservate a moltitudini di ciclisti). Per concludere con un sistema di celeri trasporti pubblici di superficie (chiamato Transmilenio) e di moderni Campus universitari (anch’essi di impronta Usa).
Una visita dunque piacevole, quella di Bogotà, soprattutto (per dirla nel linguaggio turistico made in Usa) per due Highlights/attrazioni la cui conoscenza costituisce un Must/obbligo e ‘vale il viaggio’: la Candelaria e il Museo del Oro.
La Candelaria (monumento nazionale dal lontano 1963) costituisce il centro storico, l’insieme dei 3 antichi Barrios/quartieri o ‘parroquias’ della Catedral, Egipto e la Concordia, aventi per epicentro la attuale Plaza de Bolìvar. Un quadrilatero (caratteristico dell’epoca coloniale spagnola, la Plaza Mayor, meno sovente chiamata de Armas) che dall’epoca della fondazione di Bogotà fu teatro delle più importanti vicende della storia della Colombia. Quasi 5 secoli testimoniati dai vari stili architettonici degli edifici che vi si affacciano, con quelli ‘repubblicani’ (leggasi post indipendenza del 1819). Neoclassici, la Catedral Primaria (i cui lavori principali terminano solo nel XIX secolo) pantheon di personaggi illustri (primus inter pares il ‘fundador’ Jimenez de Quesada) e il severo Capitolio Nacional, dall’austero colonnato ionico. Di semplice stile coloniale –quindi più intriganti per chi viaggia nel sud America alla scoperta di vestigia dei Conquistadores e dell’impero spagnolo- sono invece la Casa Museo 20 de Julio e la Casa de los Comuneros (all’angolo della Plaza con la buffa –almeno per il nome- Calle del Divorcio). Al XX secolo appartengono il Palacio Cardenalicio e l’Edificio Lièvano, sede del Comune, in stile ‘francese mansardato’ mentre al centro della storica agora non poteva mancare la statua equestre di Bolìvar commissionata da un amico del Libertador allo scultore italiano Pietro Tenerani. Un apporto artistico, quello italiano a Bogotà, decisamente importante. Il citato Edificio Lièvano fu progettato dal francese Lelarge ma dell’esecuzione dei lavori fu incaricato Riccardo Codazzi; alla realizzazione del Capitolio contribuirono Mario Lambasi e Pietro Cantini; il Teatro Colòn (1886 – 1895, nella bella Calle 10, la più ricca di antiche case coloniali nella Candelaria), infine, fu progettato dall’architetto Pietro Cantina e arredato dagli scultori e decoratori Cesare Sighinolfi, Filippo Mastellari, Pietro Meranini e Luigi Ramelli (intenerisce pensare che i discendenti di quest’ultimo gestiscono tuttora un laboratorio artigianale del Gesso nel cuore del Barrio). Notevole, pertanto, è sempre stata la ‘apertura’ verso il lavoro e il pensiero italiano da parte di un Paese che, come peraltro tutti gli altri del centrosud America, alle manifestazioni di acceso orgoglio (alle 6 e alle 18 di ogni giorno le radio e le televisioni mettono in onda l’inno nazionale) avrebbe potuto abbinare protezionismi di vario genere. Peraltro Bogotà è stata da sempre un punto di riferimento culturale, tanto da essere definita la ‘Atenas’ del sud America (per le tante istituzioni, scuole e accademie) da Alexander Von Humboldt che vi soggiornò dal 1800 al 1804. Si pensi oltretutto che per una decina d’anni, dal 1820 al 1830, la città fu capitale della Grande Colombia comprendente anche Panamà, Ecuador e Venezuela.
Sempre nella Candelaria e lungo la Avenida Jimenez (de Quesada) che ne delimita la zona nord, si ammira la quasi totalità degli altri monumenti di Bogotà. ‘Da non perdere’, la neoclassica presidenza della repubblica o Casa de Nariño (precursore dell’indipendenza), la chiesa gesuita di San Ignacio (cominciata nel 1605 da Gianbattista Coluccini, ispiratosi alle romane chiese del Gesù e di San’Ignazio), il complesso culturale della Biblioteca Arango, del Museo de Arte (incredibile e indescrivibile la magnificenza dell’ostensorio La Lechuga) e del Museo Botero (si ammira insperatamente una sessantina di opere del meglio della pittura e della scultura del XIX e XX secolo). E non vanno dimenticate alcune storiche chiese che i ‘santafereños’ (altro termine, oltre al già citato ‘bogotanos’, per designare gli abitanti di Bogotà) frequentano con assiduità in tutte le ore del giorno (per la sorpresa del viaggiatore europeo, non abituato a vedere tanta gente in preghiera negli intervalli delle funzioni religiose). Poco distante dalla Plaza Bolivar, lungo la Carrera 6, l’Iglesia de Santa Clara (metà del ‘600, parte del convento di clausura delle Clarisse, oggi museo) presenta esteriormente una austera povertà inversamente proporzionale alle dorate ricchezze racchiuse nell’unica navata: sculture policrome, pitture murali, trittici, quadri, intarsi di stile rinascimentale, coloniale, barocco e mudèjar. Non meno interessante e meritevole di una attenta visita è la Iglesia de San Francisco nella Carrera 7, costruita dai Francescani soltanto 20 dopo la fondazione di Bogotà: eccellenti i soffitti ‘mudèjar’, le sculture lignee dell’altare maggiore, la pittura ‘flamenca’ della cappella dedicata al santo. E non perde tempo chi visita anche la Iglesia de la Concepciòn (una delle più antiche della città, 1583) e quella di San Agustìn, con notevoli documentazioni (bello il ‘retablo’ della Virgen de Chiquinquirà) della propagazione del culto nel coloniale Virreinato de la Nueva Granada.
Il riaperto e ancor meglio visitabile Museo del Oro costituisce, con la Candelaria, l’altra grande attrazione di Bogotà e la sola voglia di visitarlo potrebbe costituire valida ’giustificazione’ per chi dovesse spiegare perché intraprende un viaggio in Colombia.
Il museo va visitato non tanto perchè contiene, nel suo genere, la più importante collezione del mondo consistente in 34.000 opere di oreficeria e 20.000 tra pietre preziose e oggetti di ceramica, pietra, tessitura. Va visitato e ‘meditato’ soprattutto perché fornisce al visitatore la certezza che all’arrivo di Colombo in America gli ‘Indigenas’ (almeno in questa zona del Nuovo Continente, 84 etnìe con 56 lingue, oggi 12 comunità principali) non erano poi quei selvaggi (da schiavizzare e convertire) dipinti dalla sedicente cultura europea. Come avrebbe mai potuto, un ‘salvaje’ (il museo custodisce ‘prodotti’ di tante culture amerinde, tra le più importanti quelle Quimbaya, Caima, Tayrona, Sinù, Muisca, Tumaco e Malagana) dare forma e bellezza a un minerale trasformandolo in maschere, sculturine antropomorfe, pettorali, braccialetti, orecchini, collari, statuette di assoluto valore artistico? La Balsa Muisca, di cui alla vicenda del non poi così mitico Eldorado, costituisce soltanto uno splendido esempio, certamente il più bello, di quanto si ammira al Museo del Oro. Ma tanti altri oggetti precolombiani muovono a tenerezza e solo la necessità di contenere gli entusiasmi impone una limitata descrizione. Assai raffinato e dalle forme armoniose un Poporo fitomorfo dei Quimbaya (500 ac – 700 dc) laddove per ‘poporo’ si intende un recipiente adibito al contenimento della calce in polvere (che veniva masticata con le foglie di Coca, dopodichè, ultimata la masticazione, l’amerindo sputava il tutto e si godeva tanti beati istanti di defatigante allucinazione, con o senza il permesso di Sciamani e Caciques). Meravigliosa la stilizzazione del Pesce Volante, un elegante, ‘agile’ ciondolo d’oro ritrovato nella regione di San Agustìn (interno della Colombia, zona dell’alto Rio Magdalena) e accreditato al Periodo Clasico Regional (1° – 10° secolo d.c.).
Divenuta Bogotà la Bacatà dei Muisca, a metà del ‘500, l’odierna metropoli colombiana non poteva che mutuare dalla Spagna la lingua nonché usi, costumi e tradizioni. E notevole è pertanto la ‘aficiòn a los toros’ nella capitale (e nel resto della Colombia, con Ferias e corride celebrate nelle città più importanti). In gennaio e febbraio la Temporada Taurina si svolge nella monumentale Plaza de Toros de Santamaria (18.000 posti, bel museo della Tauromachia), con ‘toreros’ spagnoli nel ‘cartel’/programma e le stesse regole e modalità previste “dall’altra parte del ‘Charco’” (l’oceano Atlantico, modo di dire usato quando in Spagna si vuol fare riferimento all’America o viceversa). E come in ogni Fiesta Brava che si rispetti, anche a Bogotà alla fine di ogni corrida alberghi e ristoranti con ‘ascendente Spagna’ ospitano le tradizionali Tertulias (discussioni, commenti, critiche) beninteso accompagnate da Vinos y Tapas. Una comune passione, quella taurina, che trae origine dai tempi coloniali e nel centrosud America rafforza i rapporti e le tradizioni tra Colombia, Perù, Ecuador, Venezuela, Messico e la Spagna.
Fatta la conoscenza di Bogotà percorrendone Calles e Carreras, diverte il suo panorama aereo salendo in funicolare (ma c’è chi vi arriva in bicicletta, non per nulla gli ‘scalatori’ colombiani eccellono sulle montagne delle grandi corse a tappe europee) ai 3.200 metri del Santuario de Monserrate. Una vista intrigante –la sottostante Candelaria, i grattacieli al centro di un enorme agglomerato urbano, e sullo sfondo le quasi invalicabili cime delle Ande centrali e occidentali¬-, un’occasione in più per meditare (pensando alle enormi difficoltà affrontate dai Conquistadores nel raggiungere queste impervie terre) “a cosa non costringe gli uomini l’esecranda fame dell’oro”.
Quanto alle gite nei dintorni di Bogotà ce n’è per tutti i gusti, anche gastronomicamente parlando, fermo restando che anche in Colombia, come in gran parte del continente americano, l’alimentazione di base è essenzialmente carnivora e se le finanze (quasi sempre) non lo permettono si rinuncia al filetto per tagli e frattaglie meno costose del ‘Res’, l’animale, il bestiame inteso come ‘buey o vaca’. Nota di colore, oltre che dedicata al palato, quasi tutte le escursioni dell’intera giornata prevedono il pranzo a Chia (una trentina di km da Bogotà) da “Andrès Carne de Res”. Un folle, ma nel senso di estremamente divertente, megaristorante (capienza fino a 3000 persone, 1500 gli addetti ai lavori, tra camerieri, animatori, suonatori, sicurezza e quanti altri) che contestualmente a un continuo frastuono (passaggi di orchestrine, pagliacci e miss più o meno pettorute) serve anche bistecconi, altre carni a gogò nonché le locali tradizionali leccornie. E’ il caso del Ajiaco, zuppa ‘bogotana’ di pollo, aglio cipolle e patate; del Tamal, carne, solitamente di pollo, cotta e servita dentro una foglia di banana; del Patacòn (nome che in Romagna inviterebbe a sconci pensieri), un impasto fritto di farina e di una delle tante varietà di banane; della Arepa, simile alla Tortilla messicana ottenuta dal mais, dal multiforme uso (companatico, contenitore di carni e salse variè).
Colmate le esigenze dello stomaco restano le esigenze culturali. Che gli organizzatori di escursioni appagano proponendo varie escursioni nei dintorni di Bogotà, nel dipartimento (uno dei 33 in cui è suddivisa la Colombia) di Cundinamarca (nome curioso, derivante da “Cuntur”, condor in lingua Quechuà, e “Marca” o Comarca”, in spagnolo regione, quindi Regione del Condor). Una visita ai Pueblitos Tradicionales, oltre a caratteristici villaggi e centri abitati concede panorami bucolici alternati da Haciendas/poderi, fattorie di architettura coloniale o ‘repubblicana’. Chi ritiene che la caffeina nuoccia alla salute (e pertanto la evita financo rinunciando a un sopralluogo a una piantagione di caffè) può recarsi (a una cinquantina ai silometri da Bogotà) nelle viscere della terra a visitare la Catedral de Sal, a Zapaquirà (nome evocante Zipa, il grande Cacique dei Muiscas). La sorpresa per la grandezza, meglio dire enormità di questo immenso luogo di culto sotterraneo scavato nel secolo scorso (ma le miniere del prezioso sale risalgono a ben prima dell’arrivo di Colòn) è inferiore solo allo sgomento sofferto da chi pensa al sudore e al tragico sacrificio di chi vi ha lavorato.
Un ‘opcional’ proposto dal tour operator contempla un’estensione della gita alla Laguna di Guatavita. Quella della aurea (meravigliosa) Balsa Muisca. Uno dei miti dell’Eldorado, inseguito da Gonzalo Jimenez de Quesada. Fondatore, il 6 agosto 1538, di Bogotà.
Gian Paolo Bonomi
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