Per certo ognuno di noi vive l’infanzia e la gioventù non ‘dove ha voluto’ bensì dove l’ha spedito il destino, l’omerico Fato. Dopodichè, divenuti adulti, non ci resta che farci trascinare (e colgo l’occasione per esibire un pò di cultura, fa sempre chic) da quella shakespeariana “Marea che colta al flusso conduce alla fortuna” .
Amarcord... Mottarone e lago Maggiore....A me, ad esempio, e sempre a proposito di Fato, destino, è capitato di vivere l’infanzia a Novara, tra gente (molto probabilmente) perbene e vicende e cose non poi così brutte.
Tra queste ultime, la Cupola dell’Antonelli, non arcinota solo perché minor cessat, nel senso che – sempre dello stesso autore – gode più pierre la torinese Mole (ma forse solo per contentino a una città che, dal resto d’Italia, s’è fatta fottere tutto, ma proprio tutto – ivi compreso lo status di capitale – salvo la Fiat e la Juve, ma solo perché sono degli Agnelli).
Quanto alla gente, nella mia Novara juvenile, ricordo la nostra compagnia: dapprima Vitellini, con canonico struscio avanti e indietro sotto i portici a guardare le ragassole (più provincia di così); eppoiVitelloni (sul lago Maggiore – v. foto – nelle balère a caccia di straniere, fa pure rima….).
Si era studenti (ma con i casini già chiusi in quanto Novara ‘città pilota’ pre Legge Merlin).
Quelli dell’Istituto Tecnico, il Mossotti, nel senso – detto un filino spregiativamente, sorry – dei  rag(iunat) e dei geom(etri), e ça va sans dire che nell’andare a morose, ai balli studenteschi noi liceali si cuccava di più grazie al maggior tasso culturale (con le mondine, invece, funzionava meno…).
Quelli dello “Scientifico”, l’Antonelli (in quanto architetto della Cupola di san Gaudenzio, v. sopra).
E quelli del “Classico”, il Carlo Alberto (pensa tu che signori, gli allora miei concittadini: lo sfigatissimo re tentenna sceglie la loro città per perdere una battaglia, nonchè la guerra, e loro gli vanno a dedicare il liceo… chapeau!).
A proposito, al Classico c’era anche Umberto Orsini. E con lui non si scaldavano soltanto i banchi.
Con l’Umberto andai, ad esempio, in vacanza a Santa Maria Maggiore, Val Vigezzo (non sarà Capo Nord, ma, pur sempre, ‘quasi’ Svizzera), ospiti del nostro amico Gianni Cerruti.
E fu così che, giunti nella tarda mattinata nella amena località prealpina e contestualmente seduti a tavola, deglutita la prima cucchiaiata l’Umberto si rivolse alla mamma del nostro anfitrione forbitamente esclamando: “Cazzo, signora, che buona ‘sta minestra” (con successive reiterazioni: Cazzo, signora, che buono ‘sto arrosto … Cazzo signora che buona ‘sta toma etc etc etc).
Dopodichè seguì un intero pomeriggio, tanto tempo disponibile da permettere al Gianni di informare ampiamente l’Umberto che sua mamma non era poi così abituata, e forse nemmeno tanto entusiasta (a quei tempi, poi) a udire la parola “Cazzo”.
L’avvertito prese atto e venne l’ora di cena.
Altra minestra in brodo, liquida, tutti già col cucchiaio in mano, e l’Umberto che (quasi ad anticipare le sue innumerevoli, future recite) rivolto alla mamma del Gianni le commenta, enfatizzando la prima parte dell’enunciato: “Caspita, signora, che buona ‘sta minestra”.
Solo che, a tavola c’ero anch’io, e a quel punto accaddero due vicende.
Uno: che quando l’Umberto proferì quel forbito non meno che gentile “Caspita”, pensai subito al “Cazzo”  di cui alla da poco consumata seconda colazione.
Due: che ero seduto ‘proprio’ davanti alla signora Cerruti, e l’idea che quel “Caspita” ad altro non volesse riferirsi che alla ben nota – ma da metà pomeriggio proibitissima – esclamazione marinaresca designante stupore, provocò in me un tale moto peristaltico di sorpresa da vomitare una bella dose di minestrone sul decolletè della padrona di casa.
Dopodichè, con l’Umberto in giro tra cinema e teatri, e io che cominciai a divertirmi a girare  il mondo, non s’andò più in Val Vigezzo.
Ma, resta il ricordo, non della valle, bensì della minestra: Cazzpita quant’era buona…. .