Il nostro inviato riporta, con dovizia di dettagli, la sua personale esperienza ma, soprattutto, l’emozione di questo faticoso ed esaltante itinerario spirituale. Un particolare modo per ritrovare se stessi…..
“Più il pellegrino si avvicinava al santuario, più affidabili diventavano le indicazioni relative alla distanza: ancora quattro, ancora tre, ancora due giorni di viaggio. Nel tardo Medioevo la strada era indicata da crocefissi, cappelle ed edicole sacre”
Norbert Ohler, Vita pericolosa dei pellegrini del Medioevo, Cap. XII, pag 233
Umile scriba, inizio il racconto del mio Camino Gallego non senza chiedere scusa al lettore per il taglio appena un po’ scanzonato conferito allo scritto.
Il fatto è che aver percorso a piedi (ça va sans dire, secondo più che millenaria tradizione) 102 chilometri (e 100 metri) in soli cinque giorni – oltretutto a un’età ancor più avanzata di quella che i sindacati rifiutano per l’andata in pensione – genera orgoglio e soddisfazione ma anche memorie di sudata fatica (e di piedi strascicati) sui quali è preferibile sorridere.
Chiedo inoltre scusa se nel prosieguo del racconto peccherò di orgoglio (stretto parente della superbia, chiaramente sconsigliata a un peregrino); c’è infatti poco da vantarsi di aver raggiunto la Plaza del Obradoiro (opera d’oro) di Santiago de Compostela dopo “soltanto” 100 chilometri (e pochi spiccioli) a fronte di tanti colleghi che si abbandonano sfiniti sul selciato della Plaza dopo aver percorso una distanza sette volte e mezzo superiore.
Ben 740 sono infatti le migliaia di metri dalla navarra Roncisvalle al sepolcro di Santiago nel centro della Galizia. Aggiungerò poi che negli intervalli delle cinque tappe percorse con il “cavallo di San Francesco” mi sono anche concesso agi piuttosto rari per la maggioranza dei caminantes, che a metà pomeriggio terminano la fatica occupando per tempo una cuccia negli umili non meno che molto economici refugios/albergues, comunque sempre civilmente lindi e accoglienti.
Per agi mi riferisco ai pernottamenti in confortevoli hotels e al godimento di congrue cene, ma soprattutto ai trasferimenti in auto operati dalla consorte all’inizio e alla fine delle mie fatiche pedestri. Dopo tanta modestia mi sia però concesso commentare che il percorso del Camino Gallego (i 150 chilometri finali, in Galizia, del Camino Francès, il più noto e importante dei vari itinerari della fede con meta Santiago) è sicuramente tra i più impegnativi e faticosi.
La partenza dai 1300 metri di O Cebreiro fa pensare e sperare in tranquille (e in effetti esistenti) discese, interrotte però da tanti saliscendi che tagliano le gambe e riempiono i muscoli di acido lattico. Orografia a parte, il Camino visita una terra dalla natura preservata, il percorso è pressoché interamente originale, si inoltra tra il verde di prati e alberi secolari, lungo sentieri intatti nel tempo, torrenti e ponticelli, boschi e paesaggi bucolici.
Le comode piste lungo strade trafficate e gli attraversamenti approntati per i peregrinos nei percorsi in pianura di altre Comunidades in Galizia sono pochi e se non abbondassero le frecce gialle e bianche, le pietre scolpite con la concha (conchiglia) di Santiago e altre provvide segnalazioni, si rischierebbe davvero lo smarrimento. Nel verde tra querce e castagni regna frequentemente il silenzio, sinonimo di quella solitudine che potrebbe essere rotta (chi ha letto El Peregrino de Compostela di Paulo Coelho non lo esclude) dall’apparizione di un diavolo tentatore.
Che cosa mi resta dopo la sullodata camminata svoltasi dal 25 al 29 agosto del 2002? Tra i ricordi tangibili – oltre a foto riproducenti un matusa in debito di ossigeno, più che un peregrino voglioso di detergere i propri peccati – annovero la Credencial del Peregrino e, ben esposti dietro la scrivania, con non cristiana civetteria, il palo e la Compostela. Il palo (bastone) è di grande utilità per il caminante (per accorgersene basta non impugnarlo per qualche minuto) e costituisce una vera e propria “terza gamba” che sfrutta anche la forza del braccio per spingere in salita e frenare in discesa.
Un tempo si usava il bordòn (niente a che vedere, comunque con “tenere bordone”, derivante da un tempo musicale) il lungo bastone ricurvo in cima, da cui pendeva la calabaza (zucca) a mo’ di borraccia. Oggi è esibito soltanto da qualche viandante stravagante.
Con il palo si cammina quindi più facilmente (si fa per dire) e pertanto si raggiunge un maggior numero di posti dove timbrare la Credencial. Prima di iniziare il Camino il peregrino vorrà infatti dotarsi di una sorta di carta di identità, passaporto, tessera (per dormire nei refugios/albergues), appunto la Credencial, rilasciata contro il ben modesto donativo di 20 centesimi di Euro a chi presenta un documento di identità nelle oficinas de turismo, parrocchie, ayuntamientos (municipi), ostelli delle località attraversate dal Camino. Il cartoncino contiene molti spazi in bianco che dovranno essere riempiti (timbro, data e firma) nelle successive tappe del percorso (almeno un sello/timbro por dìa, para acreditar su paso – suggerisce la Credencial). Curiosamente, questo documento autentico de la Catedral de Santiago è concesso solo a los peregrinos a pie, bicicleta o a caballo (ancorché i peccati lungo il Camino non siano permessi, chi guida un’auto o una moto non va all’inferno se si fa furtivamente rilasciare una Credencial).
Aiutati dal palo e infittita di timbri la Credencial, si arriva finalmente nella splendida Plaza del Obradoiro ove l’intima soddisfazione e l’euforia risultano inferiori solo al piacere e alla seriosità nel posare per le foto di rito. Pochi minuti di festeggiamenti all’ombra della cattedrale e si procede (fortunatamente si tratta di pochi passi) per la Oficina de Acogida del Peregrino in Rua del Villar, nella Casa del Deàn. Esibita la Credencial e compiuto un rapido calcolo controllando i timbri (è richiesto un minimo di 100 chilometri per il peregrino a pie o a caballo o 200 en bicicleta) una gentile signorina consegna la Compostela.
Ed eccola, la mia Compostela alla fine del “mio” Camino (gallego). Sarà per l’inflazione dei titoli di studio nel Belpaese o per la precarietà della mia carriera universitaria prolungatasi oltremisura, con entusiasmi sempre più stracchi e ovvia assenza di alcun sforzo fisico, non lo so, ma posso solo garantire che la conquista della Compostela ha generato in me una gioia dieci volte superiore al conseguimento della laurea.
Del mio Camino non mi pare di aver conservato altri ricordi tangibili, ulteriori memorabilia da esibire. La zucca-borraccia è ormai superflua visto il buon numero di bar e osterie lungo il percorso. La concha (conchiglia) del peregrino, da cucire alla capa o appendere allo zaino, prodotta da madre natura nel mare, ormai la trovi soltanto in pescheria; lungo “l’autostrada delle fede” ti vendono soltanto capesante di plastica con croce di Santiago impressa con il computer (un’ombra di compromesso all’incalzare della “civiltà” ogni tanto va pure pagato, o no?).
Ma ben più importante di quanto mi è rimasto ”fuori” (da far vedere alla cosiddetta “gente” che ormai ama solo chi appare e non chi è) resta ciò che ho conservato “dentro”, non appiccicato al muro, ma in testa.
Intendo però evitare i soliti luoghi comuni e lasciare ad altri le meditazioni su religiosità, valori dello spirito, eccetera; non sono un credente doc e pertanto mi ritengo il meno adatto a dissertare su questi importanti argomenti fuori dalla mia portata.
Resto comunque certo che quanto sopra ha solo parzialmente a che vedere con la grande esperienza umana che ti fornisce il Camino, con l’opportunità di trovarti o ritrovarti con te stesso, di conoscere in pochi giorni di marcia silenziosa più di quanto hai in precedenza tentato di capire sulla tua esistenza, di misurarti con la natura che ti circonda (così misteriosa e intrigante da importarti poco se querce e scoiattoli sono spuntati e nati spontaneamente o li ha creati Qualcuno), di conoscere altri tuoi simili non per quanto possano renderti, esserti utili (come l’esecranda fame di seconde case e mutande firmate oggidì comandano) bensì a livelli di amicizia ancorché occasionale, solidarietà, pari dignità, genuina spontaneità.
Se poi, oltre ad aver fatto astrazione da spiritualità, religione ecc., anche le parolone di cui sopra altro non fossero che aria fritta, beh, a chi mi domandasse perché ho affrontato la scarpinata del Camino non mi resterebbe che ricordare il commento di Sir Edmund Hillary a chi gli chiese per quali motivi fosse andato sull’Everest: “Perché era lì”, rispose.
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