Apro il ‘Corriere della Sera’ e nella cronaca leggo frasi tipo: “Vai a dare via il c…”; “Faccia di m….”; “Quel tale è uno str….”; “Mi avete rotto i c…….”.
Oh bella, detto tra noi, ma io ‘sta faccenda dei puntini puntini non riesco proprio a capirla.
Scendo pertanto in strada per chiedere perché mai tutta ‘sta strana grafica.
Fermo un signore di mezza età e chiedo se può svelarmi l’arcano. Ma quel signore ha fretta, business is business, e si defila.
Provo ad avanzare identica domanda (Cosa vogliono dire quei “Vai a dare via il c…”, “Mi avete rotto i c…….”?) a una signora uscente da un minimarket, ma, con tutto quello shopping accumulato, mica ha voglia di star lì a fermarsi e dir la sua.
A ‘sto punto non mi resta che chiedere lumi a un bambino appena uscito da un asilo.
E lui, il bimbo, mi conta su quel che “vogliono dire”.
Si tratta, precisa il futuro scolaro, di un frasario, di modi di dire (per non dire inviti…) ormai comunissimi.
“Parolacce” che, pertanto, oltre che sul tram, al cinema e financo in casa, sono ormai divenute ‘di uso comune’ pure a scuola. La lingua, cara gent, è cosa viva (e vegeta) e ‘sta mica su tanto’ a inventare prudèries.
Solo che, al ‘Corriere’, ‘ste robe qui non le hanno ancora capite.
O forse forse fingono di non sapere che la suesposta letteratura parolacciara è ormai ben nota, eppertanto recitata, anche negli asili.
E, invece, vai (ma ancora per quanto tempo?) coi puntini!