ESPERIENZE, VISIONI, STORIA E STORIE DI UNA SETTIMANA IN CROCIERA NELL’ADRIATICO ORIENTALE
per Aqya
Imbarco il sabato da Venezia sulla “Dalmacija”, si va a visitare “l’altra” sponda dell’Adriatico. La nave misura dimensioni ragionevoli, per non dire “umane”: solo 5.500 tonnellate, 140 cabine, massimo 300 passeggeri (ma solo se ‘a tappo’), una bazzecola rispetto agli attuali agglomerati urbani galleggianti (e sono già in cantiere meganavi da 4000 abitanti) con maxiteatri, campi da tennis e da basket (perché non escludere in futuro un servizio trasporti interno, taxi, tram, metrò?).
Viste le modeste distanze e le acque raramente burrascose l’altra sponda dell’Adriatico, quella balcanica, dovrebbe essere ben nota al viaggiatore italiano per ovvi motivi storico-politici e culturali. Ma a conti fatti non lo è, fatta forse eccezione per i discendenti della Serenissima Repubblica di Venezia, che di quei territori fu padrona o potenza protettrice. La scarsa conoscenza dell’Adriatico orientale è anche dovuta alla morfologia del territorio (coste estremamente frastagliate) e all’assenza di strade che permettano di raggiungere con facilità le tante località da visitare.
Nella tarda mattinata di domenica la “Dalmacija” approda a Spalato, prima tappa di un itinerario che in una settimana contempla la visita di ben 5 Paesi. Grazie allo smembramento della titina Jugoslavia si approda infatti in Croazia, Montenegro e Bosnia Erzegovina,cui aggiungere Albania e Italia, laddove si fa riferimento a Venezia. E la storia della Serenissima costituirà il “leitmotiv” della crociera nell’Adriatico, una costante durante la visita di palazzi e monumenti. Senza disturbare la storia ‘controfattuale’, quella fatta con i se, la visione di tanti Leoni di San Marco fa meditare su eventuali altri destini di questo mare se Napoleone non avesse posto fine (e pure rapinato) all’unico stato italiano indipendente per secoli.
L’ingresso nel porto di Spalato invita invece a indagare sulla megalomania di Diocleziano. Nato nella non distante Salona, anzichè limitarsi ad abbellire la residenza natale, poco prima del 300 d.c. l’imperatore ordinò l’erezione di un mega Palazzo sul mare destinato a divenire l’odierno capoluogo della Dalmazia. L’immenso edificio propone dimensioni e numeri sorprendenti: costruito su disegno rettangolare secondo gli schemi degli accampamenti romani, il Cardo misura 180 metri, 215 il Decumano, 16 sono le porte di accesso e 16 le torri sovrastanti i giardini pensili protetti da mura alte 18 metri. Una enorme struttura che da una popolazione inizialmente prevista di 1400 addetti ai servizi ‘imperiali’ arrivò a contenere fino a 15.000 abitanti, talvolta profughi provenienti dall’interno dei Balcani invasi prima dai Barbari eppoi dagli Ottomani.
Poco lontana da Spalato, anch’essa Patrimonio dell’Umanità, emoziona l’elegante Traù (Trogir), la “città degli angeli” (per la loro costante presenza nelle opere di un buon pittore locale del Rinascimento) che più ‘veneziana’ non si può. Una passeggiata nelle silenziose viuzze separanti case nobili e palazzi medioevali termina nella bella piazza principale –un trionfo del nostro rinascimento- dominata da una maestosa cattedrale il cui portale (1240) merita una sosta meditativa. Sul lato opposto, di fianco alla loggia Pubblica (1388), la Torre dell’Orologio (previsto come campanile di ben 3 chiese allineate, l’orologio è identico a quello dipinto dal Canaletto nella celebre veduta di Campo San Giacometo).
Superate in traversata notturna alcune delle 1185 isole vantate dalla Croazia (solo una settantina quelle abitate) nella mattinata di lunedì la “Dalmacija” entra nelle Bocche di Cattaro (Kotor). La visita del più bel fiordo del Mediterraneo costituisce forse il momento più intrigante, la “highlight” della settimana trascorsa lungo le coste dell’Adriatico orientale.
Dopo un paio d’ore di navigazione si sbarca a Cattaro dopo aver goduto aspri panorami di rara bellezza, salutato alla voce gli abitanti villaggi rivieraschi intatti nel tempo, ammirato due isolotti abbelliti da una chiesa barocca (la Vergine di Skrpjela) e dal santuario di San Giorgio. Protetta da una fortezza difesa da una muraglia ben preservata (un plauso all’Unesco per la creazione dei Patrimoni dell’Umanità) Cattaro incanta per un nobile non meno che poco noto passato. Anche in questo nascosto angolo del Montenegro la presenza del Leon di San Marco è insita. Verso Venezia procedevano i resti di San Trifone, che però, durante la sosta a Cattaro, si trovò talmente bene da convincere i suoi abitanti -mediante lo scatenamento di tuoni, lampi, fulmini e saette impedenti il traffico marittimo- che preferiva restare loro ospite. Grazie a tanta leggenda è oggi possibile ammirare la bella cattedrale dedicata al santo dal nome singolare, come raro è il nome della bella piazza “della Farina e del Latte”, sulla quale si affacciano palazzi nobiliari e ricche case di mercanti con sotoporteghi e cortili.
Chi si addentra nel neo Stato sovrano del Montenegro, ex Serbia, affronta 26 inquietanti ‘serpentine’ tipo Stelvio di una strada non priva di bei panorami e giunge infine a Cettigne, centro abitato che definire città è forse generoso (eppur fu capitale di un regno fino ai primi anni del secolo scorso). La visione della modesta reggia in cui re Nicola I Petrovic vide nascere i 12 figli (di cui 9 femmine e tra queste Jelena, sposa di Vittorio Emanuele III) indurrebbe a valutare con un certo sconforto la dinastia dominante un regno che non né irriverente definire da operetta. L’influenza dell’impero russo sui popoli slavi, pertanto estesa fino ai sassi del Montenegro, includeva però l’istruzione dei rampolli delle case regnanti. E fu così che la nostrana regina Elena, in gioventù ospitata ed educata con fratelli e sorelle alla corte degli Zar, risultò una buona sovrana.
Intrigante la discesa verso i bei panorami della costa montenegrina, con la deliziosa visione di Sveti Stefan, una isolotto roccioso tempo fa di gran moda per la presenza di un lussuoso hotel che entro breve costituirà il perno di un megacomplesso turistico ancor più chic. Si parla infatti di investimenti di svariati milioni di dollari (nel caso di vittoria repubblicana nelle elezioni Usa del prossimo novembre, fantapolitica?) nell’area compresa tra Sveti Stefan e Budva. Dovrebbe pertanto sorgere una sorta di Montecarlo del Mediterreno orientale e se ne possono constatare le prime avvisaglie a Budva, un tempo umile cittadina costiera, oggi più simile a una località à la page della Costa Azzurra, non si contano i Suv e auto di lusso parcheggiate di fronte a sofisticati Wine Bar e botiques.
Dopo breve navigazione notturna nella prima mattinata del martedì si sbarca nella antica Durazzo, porto e capitale dell’Albania romana. Poco distante dirimpettaio della Puglia, il Paese delle Aquile non finisce di incuriosire e di stupire. Cominciò nei tempi della Guerra fredda il Lider Maximo filo cinese Enver Hoxha, costruendo una settantina di migliaia di minifortini e casematte per respingere la sicura invasione congiunta di Urss e Usa. Laddove abbandonate sulle spiagge, quelle difese sono state oggidì trasformate dalla gioventù albanese in minibar quando non in pied-à-terre per incontri d’amore. Scomparso Hoxha, il comunismo e i pericoli di invasione, furono invece gli Albanesi a invadere l’Italia mediante veloci flottiglie di gommoni. Le recenti vicende balcaniche (tragiche ma dagli arricchenti risvolti economici) e ben visibili aiuti economici italiani hanno però convinto i giovani ‘sqipetari’ che un certo benessere poteva essere raggiunto anche stando a casa. Ecco pertanto che chi percorre i circa 45 km tra Durazzo e Tirana nota indaffarati cantieri, molte stazioni di servizio (rifornenti tante Mercedes, Suv e auto comunque di buon aspetto), market e supermarket invitanti a un incipiente consumismo. Del non più invaso Belpaese si leggono le insegne di tante medie e piccole industrie, ma è soprattutto il nostrano Verbo Televisivo ad stregare il popolo delle Aquile.
Avvince il Grande Fratello, incanta Striscia la Notizia a tal punto che ne è stata da poco inventata un’edizione autarchica tenuta a battesimo nientemeno che dalla Michelle Hunziker. Nelle strade, sui muri, tanti gli evviva a Inter e Milan (ma nessun ‘abbasso’, un evviva agli sportmen albanesi, più civili degli italici tifosi). E non mancano altre insegne nostrane, tipo Bar Brianza, Pizzeria Salerno, Ristorante Bologna. Giunti a Tirana (350.000 abitanti, circa un decimo della popolazione albanese) incuriosisce soprattutto l’architettura ‘littoria’, tanti edifici in ‘stile Piacentini (l’attuale Parlamento, i ministeri degli Esteri e dell’Agricoltura, la Banca ex d’Italia) costruiti nel breve periodo intercorrente tra l’occupazione italiana (7 aprile 1939) e l’inizio della seconda Guerra mondiale (10 giugno 1940). Ulteriore curiosità storica, durante la visita del Museo Nazionale, oltre alle foto e altre memorabilia di S. M. Vittorio Emanuele III re d’Italia e (appunto) di Albania, il mitra del colonnello Valerio che giustiziò Mussolini (dono dell’ex Pci al già citato Caro Leader Enver Hoxha). Poca Italia (ancorchè un bel monumento equestre in un viale di Roma ne ricordi le gesta) durante la visita di Kruja, roccaforte di Giorgio Castriota Skanderbeg, eroe albanese della resistenza antiottomani.
La “Dalmacija” inverte la rotta e all’alba del mercoledì approda a Dubrovnik, fino al 1909 venezianamente chiamata Ragusa, estremo angolo della Croazia meridionale (posto alla latitudine di Roma e Barcellona e alla longitudine di Stoccolma). Un sito davvero magico (per George Bernard Shaw un Paradiso Terrestre) perché alle bellezze di edifici e paesaggi e al fascino di una storia gloriosa si aggiunge il dramma delle recenti vicende e lo stupore nel constatarne la perfetta ricostruzione. E’ trascorso meno di un ventennio (1991) dai bombardamenti dei Serbi di Milosevic che da terra e dal mare offesero la città vecchia lanciando 2000 ordigni tra bombe, spezzoni e granate, un martirio per quasi 200 civili che vi lasciarono la vita, un affronto per l’intera Umanità (di cui Dubrovnik è ovvio Patrimonio).
Più edificanti risultano le remote vicende di questo lembo di Dalmazia. Città-stato a lungo indipendente, dopo l’appartenenza alla Serenissima dal 1200 al 1358, la Repubblica Ragusina vantò sostanziose ricchezze provenienti dal commercio del sale, dell’oro e dai traffici operati nel Mediterraneo con una flotta mercantile che contò fino 150 barche. I fasti di quei gloriosi tempi sono oggi visibili nel Palazzo del Rettore e nella Dogana, passeggiando lungo l’elegante Stradùn, visitando la più antica farmacia d’Europa nel convento domenicano. Un acquedotto del 1438 tuttora operante invita a meditare sui contrasti di civiltà che talvolta si verificano tra genti confinanti: poco lontano dalle case dei ragusani fornite di fresca acqua corrente, oltre i monti proteggenti la costa adriatica, l’arretratezza delle genti balcaniche raggiungeva livelli da basso medioevo.
Lo stop della nave a Ploce, il giovedì, incuriosisce. Il porto dovrebbe infatti costituire lo sbocco al mare concesso alla Bosnia Erzegovina in occasione della sua indipendenza (1992), se non che, forse per effetto dei successivi avvenimenti (le battaglie per Sarajevo, le pulizie etniche e gli accordi di Dayton nel 1995), chi si reca a Mostar (o in pellegrinaggio a Medjugorie) si imbatte in un posto di confine ‘bosnio erzegovino’ dopo aver percorso una ventina di kilometri. Misteri della politica, forse ancor più intricati di quelli della Fede, che da queste parti si sostanziano nelle devozioni alla Beata Vergine apparsa a 6 ragazzi il 24 giugno 1981 nello sperduto paese della Bosnia. I meno pii preferiscono invece visitare Mostar, di cui il celebre Ponte Vecchio sulla Neretva è divenuto simbolo (e purtroppo anche attrazione turistica, con contorno di paccottiglie esposte nell’adiacente Bazar). Voluto nel 1566 da Solimano il Magnifico e pacificamente frequentato nei secoli da genti di differenti etnie e religioni, nel 1992 lo Stari Most subì l’accanimento delle artiglierie serbe e successivamente dei separatisti croati, fino alla totale distruzione la mattina del 3 novembre 1993. Ricostruito con 1088 pietre recuperate e lavorate con antiche tecniche (unica aggiunta un invisibile supporto di cemento armato) il 22 luglio 2004 il Ponte Vecchio fu restituito a una Umanità (di cui è ovvio Patrimonio, non solo monumentale) che continua a non far nulla per meritarlo.
L’escursione settimanale nell’Adriatico orientale sta volgendo al termine, il venerdì mattina la “Dalmacija” scala a Pola. All’ombra della Arena, simbolo di una città tre volte attraente, perché prima di appartenere, dal secolo scorso, all’Italia e oggidì alla Croazia, questo estremo lembo meridionale dell’Istria fu creato e reso bello da 3 grandi protagonisti della storia.
Pola sorse per decisione di Roma (la guida dell’escursione garantisce che fu fondata da Calpurnius e dal fratello del ‘Cesaricida’ Cassio), fece parte della Serenissima Repubblica per divenire infine possesso dell’impero Austro Ungarico. E furono i sudditi di Cecco Beppe a ridare slancio e bellezza a un borgo che le vicende della storia avevano ridotto a 1200 abitanti (1843) costruendovi l’Arsenale della flotta asburgica (Venezia e il suo Collegio Navale, vera e propria accademia della Marina militare di Vienna, dopo gli eventi del 1848/49 non erano più affidabili). Posata la prima pietra il 9 dicembre del 1856, dopo solo 2 anni i cantieri varavano la nave da battaglia Kaiser. Ma sulle vicende belliche nell’Adriatico è forse il caso di glissare, da Pola uscirono le ‘navi di legno con uomini di ferro’ che a Lissa sconfissero le italiche ‘navi di ferro con uomini di legno’ (né poteva accadere il contrario, visto che l’ammiraglio Persano pensò bene di partire da Ancona senza aver imbarcato una carta nautica che fosse una). A Pola chi ama le belle cose della asburgica Mitteleuropa faccia un salto (e potrà pure degustare un delizioso calice di Malvasia istriana) al Caffè Vajne, nella piazza Grande: ammirerà i dipinti murali allietanti i clienti di una banca austriaca che qui ebbe sede fino all’arrivo del Regio Esercito. Quanto ai nostrani, più recenti ricordi, la diva Alida Valli e Sergio Endrigo (è previsto un monumento in suo onore) nacquero all’ombra dell’Arena, in questa terra d’Istria la cui perdita, confessiamolo, a noi italiani continuerà a procurare un nodino alla gola, per ancora molto tempo.
Rimandata a migliori condizioni meteo la gita alle belle Brioni, l’escursione nel sud dell’Istria conduce nella dolce, elegante Rovigno, a godere i tenui colori pastello delle sue case, le tranquille stradine conducenti alla cattedrale, ad ammirare gli ultimi Leoni di San Marco. Ma se si parla del simbolo della Serenissima è il caso di segnalare, a titolo di frivola curiosità, che a proprio a Rovigno sulla Porta dedicata al rettore Daniele Balbi (1680) si ammira –caso unico- un Leone dotato di un consistente attributo maschile e sorreggente il libro in cui la Pax destinata all’evangelista è sostituita con la Vittoria. Passeggi nelle stradine di Ruvèigno (in istrioto) e pensi alle località minori facenti da corona a Venezia, non ti stupiresti se d’improvviso sentissi parlare venexian o recitare il Goldoni (e accade, perché soprattutto sulla costa istriana, ma anche su quella dalmata, l’offerta della cultura veneziana è lodevolmente ricca).
La traversata pomeridiana conducente a Venezia dura poche ore, giusto il tempo per arrivare nel bacino di San Marco durante un sontuoso tramonto. Tra la Giudecca e il Canal Grande si va alla ricerca di un Bàcaro, la tipica osteria veneziano dispensante ‘ombre’ e gustosi ‘cicheti’, ma l’impresa è sempre più ardua, dominano ormai i fastfood, i posti al neon proponenti pizze scongelate e finto ecologici ‘insalatoni’.
Sabato mattina, si sbarca, attraversi Dorsoduro (se non il più bello certamente il più ameno e tranquillo sestiere di Venezia). Superi il ponte della ferrovia e il Ponte di Mostar, l’Arena di Pola, l’inquietante fiordo di Cattaro, il megapalazzo di quel megalomane di Diocleziano, i piacentiniani edifici littorii di Tirana, gli eleganti palazzi di Dubrovnik diventano ricordi. Di una bella lunga escursione marittima, goduta su un mare vantante fascino e storia.
Ahhhh, l’Adriatico ha una profondità massima di 1300 metri, media di 173, la velocità media delle correnti marine è di 0.5 nodi e non supera mai i 4, la sua acqua è ricca di sale (38 kg ogni 1000 litri), in maggiore misura nel settore meridionale (“colpa del Po” che insieme a tante porcherie scarica pure un po’ di acqua dolce), registra una temperatura media di 11° d’inverno, tra i 23 e i 27° (in Istria e Adriatico meridionale) d’estate, modesta la marea (tra i 35 e i 90 cm) e infine, quanto ai venti, la fanno da padrone la Bora (nordest), il Maestrale (nordovest) e lo Scirocco (sudest).
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MARI DEL MONDO, LA SPONDA ORIENTALE DELL’ADRIATICO
Una interessante gita settimanale nelle più belle località costiere croate, albanesi, montenegrine e bosniache
per mondointasca.org del 24/5/08
Sulle acque dello Jadranska More – Mare Adriatico. Con la motonave Dalmacija, della flotta croata Adriatic Cruises, alla scoperta della “storia” e delle “storie” di antiche terre e nuove nazioni. Tra le architetture di mirabili città e le bellezze naturali di una costa affascinante
Sabato. Venezia. Nel pomeriggio mi imbarco sulla “Dalmacija” per una settimana esplorativa lungo “l’altra sponda” dell’Adriatico. Parto con molta curiosità, anche perché i posti da vedere non sono soltanto intriganti, per storia e bellezze paesaggistiche, ma risultano pure tanti. Per chi ama viaggi “ricchi” di mete, vedere “tanto”, almeno in termini numerici, questa crociera è una goduria.
Grazie allo smembramento della titina Jugoslavia si approda infatti in Croazia, Montenegro e Bosnia Erzegovina, sommandosi così a cinque i Paesi visitati dalla “Dalmacija” (ai citati neostati vanno infatti aggiunti l’Albania e la Serenissima Repubblica di Venezia sede di partenza e arrivo della crociera).
Mancavo dalle crociere da circa una trentina d’anni, ma la sorpresa nel risalire su un albergo natante dopo tanto lasso di tempo non è poi così scioccante. Devo ciò alla non imberbe età della “Dalmacija”, che a mio modesto parere non costituirà un problema. Sarà che amo ciò che è un po’ fanè, le cose eleganti visitate dalla patina del tempo, il legno al posto della plastica, le lampade invece dei tubi al neon, le orchestre melodiche in confronto ai disc-jockeys, le musiche e non le urla della foresta, il bello invece del kitsch. Ma quel che conta sono le dimensioni umane della “Dalmacija” (5.500 tonnellate, 140 cabine, massimo 300 passeggeri con nave “a tappo”) e soprattutto quello che vado a vedere. A nanna.
Spalato e il suo “Palazzo” fuori misura
Domenica. Spalato. Si naviga sul bel Adriatico (a me caro: quanta storia, civiltà, cultura l’hanno attraversato nei millenni), mare forse meno dispensatore di bellezze sui litorali italiani che su quelli orientali. Basti citare le 1185 isole vantate dalla Croazia (solo una settantina quelle abitate) situate di fronte a una costa mossa da penisole e insenature, il tutto per la gradevolissima visione di panorami che solo da una nave puoi godere con completezza.
Chi entra nel porto di Spalato non può che meditare sulla megalomania di Diocleziano. Per il semplice motivo che la poco distante, romana Salona (si visitano i resti archeologici durante un’escursione interessante ma non esaltante) non aveva nulla a che vedere con l’attuale Spalato. Se non che poco prima del 300 d.c. l’imperatore pensò bene di costruirsi un mega Palazzo sul mare, a poca distanza dalla città natale, con il risultato che all’interno e intorno a quell’immane edificio (ovviamente dichiarato Patrimonio dell’Umanità) si sviluppò l’odierno capoluogo della Dalmazia.
Spalato
Le dimensioni del Palazzo spalatino risultano a dir poco inquietanti: costruito secondo i dettami dell’accampamento romano, il Cardo misura 180 metri, il Decumano 215, le mura contenevano 16 porte, tante le torri sovrastanti giardini pensili; dai previsti 1400 abitanti “imperiali” al servizio di Diocleziano, si arrivò ai 15.000 profughi ospitati durante le tante invasioni barbariche e ottomane succedutesi nei secoli nell’Europa balcanica. E’ il caso di dire “vedere per credere”.
Poco distante da Spalato, tenera e commovente la visita di Trogir, anzi la ex nostrana Traù, bella e deliziosa, civilissima, nobile “città degli angeli” (perché sempre presenti nelle tele di un buon pittore locale del Rinascimento).
Nelle famose “Bocche” di Cattaro
Lunedì. Cattaro. Sto per vivere una giornata davvero importante, densa di sensazioni non solo turistiche, spazianti dall’estetica alla gastronomia, dalla politica all’economia, dalla storia al folclore. Una giornata che gli Yankees definirebbero Kotor-Day, prologo e gran finale nelle Bocche di Cattaro, un termine geografico che mi intrigò fin da piccolo (cosa c’era mai dentro quel dedalo d’acqua dominato da incombenti e cupe montagne?).
Dopo un paio d’ore di navigazione nel fiordo si arriva a Cattaro con l’occhio appagato da panorami inconsueti, villaggi rivieraschi con gli abitanti che si sbracciano nei saluti, due minuscoli isolotti decorati da una elegante chiesa barocca (la Vergine di Skrpjela) e un santuario (San Giorgio). Ai piedi di un dirupo sovrastato da una robusta fortezza da cui si dipartono quattro chilometri e mezzo di una minimuraglia cinese assai ben preservata (essere dichiarati Patrimonio dell’Umanità spinge quantomeno a non distruggere panorami e monumenti) Cattaro incanta per un glorioso quanto poco noto passato.
Superfluo informare che anche in questo recondito angolo del Montenegro la presenza di Venezia è immanente. Verso la Serenissima procedevano, dal medio oriente, i resti di San Trifone, se non ché il santo, mediante ininterrotti uragani impedenti il proseguimento del viaggio (che belle le leggende!) convinse gli abitanti di Cattaro che preferiva restare dov’era. E fu così che oggi ammiriamo la bella cattedrale, appunto dedicata a un santo dal nome singolare, come singolare è il nome di una delle più belle piazze di Cattaro, detta della “Farina e del Latte”, circondata da palazzi e ricche case di mercanti con “sotoporteghi” e cortili.
Cettigne, la città di Elena di Savoia
Ci si addentra nel neostato (primo dei due pezzi perduti recentemente dalla Serbia, il Montenegro eppoi il Kosovo) con il bus che si arrampica infilando un rosario di venticinque serpentine tipo Stelvio, volute dal re Nicola I Petrovic per rendere un filino meno isolata la capitale Cettigne. Mediante una molto impervia ma percorribile strada (chissà a quei tempi) pensò il sovrano, sarebbe anche potuto passare da quelle parti qualche pretendente la mano di una delle nove principessine da lui procreate (più tre maschi). E difatti ecco apparire a Cettigne l’allora nostrano principe Vittorio Emanuele III. E fu così che Jelena (peraltro ben educata alla corte dello Zar di Russia, talché si rivelò ottima sovrana) divenne la nostrana regina Elena.
E’ sera, tra luci di strade e case così vicine – quasi si percorresse un viale cittadino – la “Dalmacija” lascia il fiordo, esce dalle Bocche di Cattaro.
Durazzo, “nuova vita” in Albania
Martedi. Durazzo. Nel cosiddetto Paese delle Aquile c’ero già stato, molto brevemente, all’epoca di Enver Hoxha, il deciso e truce dittatore amico dei Cinesi e quindi acerrimo nemico del Papa e di Breznev (ricordate, quello dell’Urss con le sopracciglia che ricordavano “Cime Tempestose”?).
Meno impaurita della precedente, questa mia escursione albanese si svolge invece all’insegna della sorpresa, nello scoprire situazioni impensate, nello smentire fosche previsioni di trovare un Paese paracriminale come da luoghi comuni peraltro un tempo veritieri. Altro che gommoni di disperati approdanti sulle coste pugliesi a tentar fortuna! In viaggio da Durazzo e Tirana, circa quarantacinque chilometri, non si contano i cantieri all’opera, le stazioni di servizio per auto, il novanta per cento Mercedes, molti i Suv; market e supermarket invitanti a “strafugnarsi” nel consumismo. Gli Albanesi stanno conoscendo (almeno nelle due importanti città, nell’interno è probabilmente più grigia) quella fortuna che erano venuti a cercare nello Stivale (e difatti di gommoni non ne arrivano più).
Dall’Italia una seconda “invasione” mediatica
Quanto alle esportazioni italiane, destano entusiasmo i nostri prodotti griffati e tanti programmi televisivi (tutti seguitissimi: avvince il Grande Fratello, ma è Striscia la Notizia a fare ammattire gli Albanesi). Nelle strade, sui muri, tanti gli evviva a Inter e Milan (ma nessun “abbasso”; bravi gli Albanesi, almeno sportivamente più civili di noi). Frequenti pure insegne “italiane”, tipo Bar Brianza, Pizzeria Salerno, Ristorante Bologna. Nelle strade di Tirana (350.000 abitanti, circa un decimo della popolazione albanese) l’Italia è presente non solo con gli autobus donati dalla Atm milanese (effettuato un controllo è risultato che almeno lì gli Albanesi pagano) ma anche e soprattutto con gli edifici “fascisti” (invasione italiana il 7 aprile 1937).
Tanti gli edifici della “Tirana Littoria” costruita nei pochi mesi precedenti la seconda Guerra mondiale (e diciamolo chiaramente, i palazzi del Ventennio ispirati da Piacentini – l’attuale Parlamento, i ministeri degli Esteri e dell’Agricoltura, la Banca ex d’Italia – non sono poi così malvagi). E tanti i ricordi del nostro recente passato nel Museo Storico Nazionale: dalle foto del già citato re Vittorio Emanuele III, al mitra del colonnello Valerio che uccise Mussolini (dono del Pci al già lodato Caro Leader Enver Hoxha).
Nobiltà di Ragusa
Mercoledì. Ragusa. Dopo una breve navigazione notturna, di prima mattina la “Dalmacija” approda a Dubrovnik (fino al 1909, più “venezianamente” Ragusa e adotto questo nome per tutto il prosieguo della narrazione). Appena attraversate le severe mura di pietra grigia, un cartello informa che durante l’assedio ex jugoslavo (leggere Serbia) sulla città vecchia piovvero qualcosa come duemila ordigni tra bombe, spezzoni, granate, sia dall’entroterra che dal mare.
Descritta la tragica, recente storia, più edificanti sono le remote vicende di questo lembo di Dalmazia. Città-stato a lungo indipendente, beninteso sotto la protezione della grande Serenissima Repubblica, cui appartenne fino al 1358, Ragusa (superfluo precisare che da ormai tanti decenni è Patrimonio dell’Umanità) vantò a lungo ricchezze provenienti dal commercio del sale, dell’oro e dai traffici operati nel Mediterraneo con una flotta che arrivò a sommare centocinquanta barche da trasporto. Un ben di dio, in un contesto di estrema e raffinata civiltà; basti citare che nel 1438 un acquedotto (tuttora operante) portava acqua ai ragusani, mentre a pochi chilometri di distanza, negli arretrati Balcani, gli invasori ottomani e i loro soggiogati vivevano in condizioni da basso medioevo. I fasti di quei gloriosi tempi sono tuttora visibili, perfettamente ricostruiti, nel Palazzo del Rettore e nella Dogana, passeggiando lungo l’elegante Stradùn e visitando la più antica farmacia d’Europa, nel convento domenicano. La “Dalmacija” riparte e per certo chi è a bordo ammetterà che (per dirla con gli Yankees) visitare, conoscere Ragusa è un “must”, un doveroso obbligo per il viaggiatore.
Mostar e il suo famoso ponte
Giovedi. Mostar. Avviso ai naviganti. All’arrivo della “Dalmacija”, nel porto di Ploce, si ammira la bandiera croata, che sarebbe poi quella della ex Jugoslavia a strisce orizzontali blu bianche rosse con l’aggiunta, al centro, di uno scudo a scacchi biancorossi in sostituzione della stella rossa voluta da Tito. In realtà Ploce dovrebbe costituire lo sbocco al mare riconosciuto alla Bosnia Erzegovina alla nascita della sua indipendenza (1992); ma forse per effetto dei successivi avvenimenti (Sarajevo, pulizie etniche e gli accordi di Dayton nel 1995) chi oggidì va in visita a Mostar (o in pellegrinaggio alla Madonna di Medjugorje) esibisce i documenti in un posto di confine “bosnio-erzegovino” situato a una ventina di chilometri da Ploce. Misteri della politica.
A Mostar l’ormai celebre Ponte Vecchio (Stari Most) sulla Neretva, costituisce la “highlight” – rubo sempre terminologie turistiche made in Usa e me ne scuso – ovvero la grande attrazione della martoriata città. Sul manufatto, voluto da Solimano il Magnifico, datato 1566 e difeso dal 1992 dalle forze governative bosniache, si accanirono prima i Serbi eppoi i secessionisti croati, che la mattina del 3 novembre 1993 riuscirono finalmente a ridurlo in briciole.
Perfettamente ricostruito (con 1088 pietre recuperate e lavorate con antiche tecniche, ancorché nella parte inferiore, scorra invisibile un supporto di cemento armato) questo Patrimonio (non solo monumentale) dell’Umanità, fu restituito il 22 luglio 2004 a chi è sensibile al bello (si dice che fu il ponte a singolo arco più grande del suo tempo) e alle umane vicende (ahinoi, mica sempre, anzi quasi sempre tendenti al brutto). La visita di un’antica casa turca (si fa per dire, ma un filino di “relax turistico”, dopo le tristezze del Ponte, occorre proprio) completa un’escursione intrigante non meno che meditativa.
Pola, a “illuminare” l’Istria
Venerdi. Pola. Si sbarca a pochi metri dall’Arena (bella bella bella!) in una città triplamente bella perché tale fu con i Romani (la guida assicura che fu fondata da Calpurnius e dal fratello del “Cesaricida” Cassio) i Veneziani (poi decadde) e infine con gli Austriaci. Questi ultimi, costruendovi l’arsenale della Flotta (1856) ridiedero nuovo slancio e bellezza a un borgo ridottosi a 1200 abitanti (1843).
Per chi ama le bellezze artistiche della Mitteleuropea asburgica, consiglio una sosta (delizioso un calice di Malvasia istriana) al Caffè Vajne, nella piazza Grande, per ammirare i dipinti murali allietanti i clienti della banca austriaca che qui ebbe la sede fino all’arrivo dei vincitori italiani. Pola è anche un angolo di nostrani, recenti ricordi: la diva Alida Valli e l’ispirato cantautore Sergio Endrigo (stanno allestendo un monumento in suo onore) nacquero all’ombra dell’Arena, in questa propaggine estrema dell’Istria la cui perdita, a noi italici (confessiamolo) un piccolo nodo alla gola lo procura, eccome. La gita in pullman si conclude a Rovigno, splendida, elegante, accogliente.
A bordo della “Dalmacija” la pomeridiana traversata (uno scherzo di poche ore, l’Adriatico è davvero un mare a misura d’uomo) da Pola a Venezia aiuta a meditare, a riordinare le idee (ogni viaggio dovrebbe essere chiuso da un “bilancio”, beninteso non solo economico ma anche e soprattutto culturale, umano).
Ed ecco un arrivo a Venezia che avrebbe entusiasmato anche un vedutista del Settecento. A babordo il Lido, a tribordo gli Schiavoni, a sinistra San Giorgio, a destra piazza San Marco. Infine si entra nella Giudecca.
Ritorno nella Serenissima
Sabato. Venezia. Si sbarca dalla “Dalmacija”, al termine di una gustosa gita acquatica, una settimana a vedere cose belle (natura, storia, genti diverse) da una nave che, come già commentato, se per un verso non nasconde l’età (ma chi affronta questo tipo di crociere non goderecce perché non interessato a lustrini, discoteche, neon e paillettes, sa apprezzare anche la patina del tempo) possiede però le appropriate dimensioni per infilarsi nei posti giusti, intriganti, che sovente sono quelli reconditi. E a tale proposito, soltanto quella memorabile navigazione, una volta fagocitati dalle Bocche di Cattaro, “varrebbe il viaggio”.
Post Scriptum. Una doverosa informazione per gli aspiranti croceristi nell’Adriatico orientale. Quanto narrato è stato ammirato durante una crociera “Gemme dell’Adriatico”. La “Dalmacija” ha inoltre in programma le crociere “Le Perle dell’Adriatico”, il cui itinerario prevede le soste a Zara (il centro storico con escursione al magnifico Parco Nazionale dei Laghi di Plitvice) e a Curzola (isola considerata la patria di Marco Polo) in sostituzione dello scalo in Albania (Durazzo).
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