Tradendo il burro padano per la spremuta della benefica ”aceituna” andalusa…

per mondointasca.org 8/3/2007

andalucia - granada - Dale Limosna 2Nella mia ormai trentacinquenne milizia giornalistica, oltre a dichiararmi (immodestamente) “esperto di turismo”, ho pure la sfrontatezza di proclamarmi (ancor più immodestamente) discreto conoscitore dell’enogastronomia.
E non mi fermo alla buona tavola del Belpaese. Penso pure di poter vantare, con estrema iattanza, anche buone cognizioni del “mangiare e bere” in Spagna. Se così non fosse, non avrei potuto scrivere un minidizionario gastronomico “italiano-spagnolo-italiano”, oltretutto valutato il giusto perché pratico e utile.
A ciò si aggiunga un minuzioso minitrattato sul “Jamòn de Pata Negra” (fantastico prosciutto iberico). Come se ciò non bastasse, non avrei avuto la pazienza di redigere una “miniGuida” segnalante più di cinquecento “posti dove mangiare in Spagna: ristoranti, bares de tapas, mesones, bodegones” da me visitati nel tempo.

Toccando “ferro”…
Considerato che cinquecento punti dove sfamarsi sono davvero tanti, commenterei che ho raggiunto questo minirecord “en solitario” grazie alla perseveranza, al piacere della curiosità e soprattutto alle capacità resistenziali dell’apparato digestivo, alias la salute.
Già. Un evviva alla salute e alla sua importanza, soprattutto se perdurante in un contesto coinvolgente il disordinato universo dei viaggi e le ancor più sregolate vicende dell’alimentazione (bravissimi dietologi di sé stessi, ad esempio, gli ispettori della Guida Michelin, professionalmente obbligati a mangiare una sola volta al giorno: ma quanto!). E di buona salute ne godo invero abbastanza e ancor prima di dichiararlo provvedo a toccare ferro, lasciando a spagnoli e anglosassoni la preferenza per il legno, “madera” o “wood” che sia, con il risultato che nel mondo tutti palpano scaramanticamente qualcosa, non si sa mai.
Buona salute dovuta a che cosa (oltre che al Fato quando non Fortuna)?
Mah, francamente non ne conosco i motivi, non saprei davvero chi o che cosa ringraziare. O meglio, un’idea, un sospetto lo coltivo da tempo e lo rendo pubblico. Forse forse, il non stare poi così male alla mia veneranda età (70 suonati) potrebbe essere merito di una alimentazione che mi ha visto privilegiare l’olio.

Dai patri lombi, l’olio come “amore”
bonomi guida Ristoranti Spagnoli
E dire che il mio approccio all’olio non è stato dei più facili, per svariati motivi che definirei etnici, geografici, financo politici, nonché fisiologici ed economici.
Sono infatti venuto al mondo nel nord dell’Italia da un romagnolo e una piemontese. Ma mentre per il padre lughese il prezioso derivato dell’oliva poteva anche rappresentare qualcosa di non sconosciuto (tanti gli uliveti sulle colline tosco-emiliane, versante padano di quegli Appennini che costituiscono lo spartiacque gastronomico tra il Settentrione cucinante con il burro e il centro-sud del Belpaese nelle cui cucine impera l’olio), per la madre Vej Piemont era considerato un commestibile quasi misterioso.
Mi riferisco, attenzione, all’olio di oliva originale, quello che oggi definiamo vergine o extra vergine e durante la guerra era venduto alla borsanera come “olio-olio”, parimenti al vero caffè (non un surrogato composto d’orzo o quant’altro similare proveniente dalle nostre colonie ormai già ex) che al mercato nero si chiamava “caffè- caffè”. Perché l’olio non poteva mancare nemmeno sulle tavole del Nord (si pensi solo al condimento dell’insalata) ma si trattava di un olio che (se rapportato a quello venduto oggidì) con le olive non aveva proprio nulla da spartire, provenendo da semi tipo il girasole o – ricordo, chissà se questa pianta esiste ancora, ancorché sotto altro nome – il ravizzone.

Al Nord, “battaglia” fra olio e burro
E non è che i Nordisti italici disdegnassero l’olio per preconcetto o per motivi campanilistici o economici. No, è che in molti casi (ad esempio la “componente piemontese” della mia famiglia, con la zia che condiva la “sua” insalata con un che dall’aspetto molto acquoso) l’ “olio-olio” risultava eccessivamente pesante, stranamente (per stomaci che divoravano financo salami affondati nel grasso e la pesante “cassoela” longobarda) poco digeribile.
Beninteso, questa sorta di “oliofobia nordica” non escludeva l’esistenza dell’ulivo nell’Italia padana e subalpina (né di alcuni piatti a base di olio, si pensi alla “Bagna Caoda”, il cui condimento era commerciato con l’altro ingrediente, le acciughe, dagli “anciuàt” provenienti dalla vicina Liguria).
Non solo: proprio nel nord del Belpaese l’ulivo ha conseguito il lusinghiero record mondiale della coltivazione alla più alta latitudine. Un tempo detenuto (o quantomeno vantato) da Arco (nel Trentino, pochi chilometri a nord del lago di Garda) il primato si è trasferito nel Friuli Venezia Giulia.

Elegia dell’olio in etichetta
Già presente ai tempi dei Romani (Friuli, da Forum Iulii, di Giulio Cesare), abbandonata nei secoli bui, rilanciata dall’imperatrice Maria Teresa (mediante un contributo di due fiorini per ogni pianta interrata) e poi nuovamente dimenticata, la coltivazione dell’ulivo è stata recentemente ripresa nelle terre del Collio dal conte Formentini (una cui ava portò in dote il Tokaji a un nobile sposo ungherese).
Ulivo pertanto non totalmente sconosciuto nel nord Italia, ma dalla coltivazione circoscritta a piccole zone (lago di Garda, il citato Appennino) per una produzione di olio che si potrebbe sportivamente definire dilettantistica, familiare, raramente “industriale” (e comunque di modeste dimensioni). Considerati poi tutti i costi della manodopera e la scarsa redditività del frutto, ne deriva che produrre olio a livello “casareccio” è sinonimo di un lusso che molti non si possono permettere (tanto per fare due conti, un litro di olio imbottigliato – con una resa media di olive del 15% da una pianta adulta e da circa quindici chili di frutto – al piccolo produttore “famigliare”, costa non meno di 20 euro).

Huevos con chistorra ... Uova con salsiccia della Navarra (durante i Sanfermines di Pamplona alle 10 del mattino, sennò d'inverno...)

Huevos con chistorra … Uova con salsiccia della Navarra (durante i Sanfermines di Pamplona alle 10 del mattino, sennò d’inverno…)

Ma la passione (e la certezza di degustare una cosa buona) è tanta e non inferiore al timore che quanto venduto al supermarket a prezzi di molto inferiori possa essere prodotto più dalla chimica che dalla Natura. Una passione non disgiunta da poetico entusiasmo, a giudicare da quanto scrive un amico medico – possidente di un fazzoletto di terra avita sul Garda – sull’etichetta dell’ “olio di famiglia”: “Praticamente miracoloso, splendido per condire, aromatizzare, insaporire, cucinare, rosolare, soffriggere, ottimo da assaporare, degustare, centellinare. Gli si riconoscono virtù tonificanti, terapeutiche, medicamentose, lubrificanti, officinali e cosmetiche. Si dice che seduca con doti di magia e sortilegio; susciti incanto, estasi, malìa e meraviglia dei sensi. Fidando nelle sue qualità prodigiose, in esso si ripongono l’augurio e la bieca speranza che possa essere anche stimolante afrodisiaco”.

Un’altra “battaglia”: fra Italia e Spagna
E la mia (benefica) “aficiòn” all’olio? Beh, nacque col tempo, legata alle mie vicende professionali. Ritrovatomi a viaggiare sempre più sovente nella mia “querida” Spagna, dove l’Aceite (olio, da “aceituna”-oliva) è da sempre vincente sulla mantequilla-burro (mentre in Italia il primato è divenuto schiacciante solo in date più recenti) dell’olio divenni non solo estimatore ma pure utente.
E arrivai pure (ebbene lo ammetto, sono un traditore, un transfuga, un rinnegato, ma ho sempre tenuto per i deboli, gli oppressi dai potenti) a “tenere” per i produttori d’olio spagnoli che combattevano una sorta di “Guerra di Indipendenza” contro gli italiani.
Accadeva infatti negli anni Sessanta che i nostrani imprenditori, arricchiti dal boom noto anche come “miracolo economico”, invadessero la Spagna a comprare (per due soldi) oleifici e uliveti, da cui una produzione di olio venduto come “made in Italy” sui mercati del Belpaese. Ma da qualche lustro le fortune di Spagna e Italia si sono invertite ed ecco oggidì gli iberici – dopo aver ricomprato quanto un tempo dovettero svendere – vantare una “industria oleicola” che produce e vende sui mercati mondiali, (“producto de España”) l’olio un tempo etichettato “made in Italy”. I tempi cambiano; “panta rei”, tutto scorre.

Andalusia, paradiso degli ulivi
In Spagna se dici “olio” pensi contestualmente all’Andalusia e grazie a quella fantastica macchina fotografica che è l’occhio umano ripercorri il verde mare delle province di Cordoba e di Jaèn (una cui località, Martos, si proclama “el mejor olivar del mundo”). Una enorme superficie non d’acqua ma di alberi, mossa dalle onde create dalle tante colline che si sovrappongono fino a perdersi nell’orizzonte.
In primavera, con il colore della terra rosseggiante ravvivato dalla pioggia, il contrasto con il grigioverde degli ulivi e il blu del cielo dà vita a panorami indimenticabili.
Olio, dunque, non solo nel senso di salute ma anche di cultura, di turismo.
Per non parlare di storia, con un pensiero alla fatica, all’oceano di sudore sparso nei secoli per ottenere questo prodigio tipicamente mediterraneo; al lavoro silenzioso dell’umile contadino, dalla raccolta dell’oliva alla sua trasformazione nel frantoio del Sud Italia e nella “almazara” (nome arabo per eccellenza) spagnola.
Valga per tutti ricordare quanto Paco Ibañez celebra in “Andaluces de Jaèn” (traduzione superflua): “Quièn levantò los olivos? No los levantò la nada, ni el dinero, ni el señor, sino la tierra callada, el trabajo y el sudor … cuantos siglos de aceituna, los pies y las manos presos, sol a sol y luna a luna, pesan sobre vuestros huesos!”.